PETER STRAUB
PATTO DI SANGUE
(If You Could See Me Now, 1977)
A Carol Smith e Robin Justin
in ricordo di centinaia di
interurbane
21 LUGLIO 1955
«L'inverno è già cominciato» disse Alison.
«Eh?»
«L'inverno è incominciato un mese fa.»
«Non ti seguo.»
«Che giorno è oggi?»
«Il ventun luglio. Giovedì.»
«Dio, guarda quelle stelle» disse lei. «Sapessi come mi piacerebbe spiccare un balzo e volare in cielo in mezzo alle stelle.» Lui e sua cugina Alison, che durante il resto dell'anno abitavano alle opposte estremità del continente, erano sdraiati l'uno a fianco all'altra sul prato della casa della nonna, nella zona rurale del Wisconsin più prossima al corso del Mississippi. Se ne stavano lì a guardare il cielo oltre le chiome folte e scure dei noci. Dalla veranda li raggiunse la voce rozza di Oral Roberts. «Il mio spirito sta passando dentro di te» stava gridando, mentre Loretta Greening, la madre di Alison, rideva sommessamente. Il ragazzo girò la testa di lato, appoggiando la guancia contro l'erba cedevole e ruvida, e osservò il profilo della cugina. Era affilato e acuto come quello di una volpe, ardente, e se la sola volontà le avesse permesso di alzarsi in volo, a quell'ora sarebbe già stata lontana da lui, sospesa nell'aria sopra la sua testa. Aspirò il suo odore: sapeva di acqua fredda, tonificante. «Dio» ripeté Alison, «significa che starei sfrecciando là in mezzo. È la stessa sensazione che provo a volte quando ascolto Gerry Mulligan. Lo conosci?»
No, non lo conosceva.
«Accidenti, dovresti davvero venire a vivere in California. A San Francisco. Non solo perché così potremmo vederci più spesso, ma perché la Florida è così tagliata fuori dal mondo! Gerry Mulligan ti farebbe impazzire. È assolutamente fantastico. Jazz progressivo.»
«Mi piacerebbe tanto poter venire ad abitare vicino a voi. Sarebbe splendido.»
«Odio tutto il mio parentado tranne te e mio padre.» Alison voltò la testa verso di lui e gli rivolse un sorriso di un candore così smagliante che per poco il suo cuore non cessò di battere. «E credo di vederlo ancor meno di quanto veda te.»
«Allora io sono fortunato.»
«Puoi metterla così.» Distolse di nuovo lo sguardo. In lontananza, le voci delle loro madri si confondevano con il rumore della radio. Nonna Jessie, il sagace perno della famiglia, stava lavorando in cucina e, di tanto in tanto, la sua voce raggiungeva la veranda e si inseriva fra quelle più forti delle due figlie, impegnate in una fitta conversazione. Era rimasta rinchiusa tutto il giorno a parlare con il cugino Duane (pronunciato Diu: ein), che stava per sposarsi. I ragazzi sapevano che la nonna era contraria a quel matrimonio, e che le ragioni che opponeva erano tenui ma valide.
«Ti sei messo nei guai anche l'anno scorso» riprese Alison.
Lui grugnì un sì imbarazzato, lasciando intendere di non aver alcuna voglia di affrontare quell'argomento. In teoria, lei non doveva sapere niente delle sue marachelle. E l'ultima volta l'aveva combinata davvero grossa, tant'è vero che era stato tormentato dagli incubi per parecchie notti di seguito.
«Ti capita spesso di cacciarti nei guai, o mi sbaglio?»
«Credo di sì.»
«Anch'io, ogni tanto ne combino qualcuna. Non da poter competere con te, ma quel che basta per farmi notare. Sai, ho dovuto cambiare scuola. Tu quante volte hai cambiato scuola?»
«Quattro. Ma la seconda volta ... la seconda volta è stato perché una delle insegnanti ce l'aveva con me.»
«Io ho avuto una relazione con il mio insegnante di disegno.»
Lui la guardò diritto negli occhi, ma non riuscì a capire se stesse mentendo oppure no. Alla fine concluse che forse stava dicendo la verità.
«È per questo che ti hanno cacciata via?»
«No. Perché mi hanno beccata a fumare.»
Adesso era sicuro che quel che gli aveva detto era vero, perché quando uno racconta una bugia tende sempre a fiorire la storia, non a deludere chi l'ascolta con una conclusione così. Il primo sentimento che provò fu di profonda gelosia e di altrettanto profondo interesse, sensazioni che si mescolavano ad un grande senso di ammirazione. A quattordici anni, Alison, che era un anno più vecchia di lui, faceva già parte del mondo degli adulti, quel mondo passionale fatto di avventure amorose, sigarette e cocktail. Già prima lei gli aveva confessato quanto le piacesse il Martini, di cui lui conosceva a malapena l'esistenza per averne sentito pronunciare il nome dai suoi genitori.
«Penso che al vecchio Duane piacerebbe avere una relazione con te» disse lui.
Alison ridacchiò. «Be', io non credo che abbia grandi possibilità.» Poi, con uno slancio imprevisto e appassionato rotolò su un fianco e si mise di fronte a lui. «Lo sai che cos'ha fatto ieri? Mi ha chiesto se andavo a fare un giro con lui sul suo camioncino. E stato quando tu e tua madre siete andati a trovare zia Rinn. E io gli ho risposto sì, perché no e così siamo andati. Appena è uscito dal vialetto mi ha piazzato una mano sulle ginocchia e l'ha tolta solo quando siamo passati davanti alla chiesa.» Alison rise di nuovo, come se quell'ultimo particolare fosse la prova decisiva del totale fallimento di Duane come amante.
«E tu l'hai lasciato fare?»
«Aveva la mano che gli sudava» proseguì Alison ridendo e senza curarsi minimamente di abbassare la voce, tanto che il ragazzo si chiese se Duane non potesse sentirla. «Sembrava che mi stesse spalmando del grasso da macchina o qualcosa di simile sulle ginocchia. Allora io gli ho detto "Scommetto che non hai molta fortuna con le ragazze, vero Duane?" e lui ha fermato immediatamente il camion e mi ha fatto scendere.»
«Non ti piace nessuno dei ragazzi di qui?» Desiderava ardentemente che lei replicasse con un secco no e sulle prime la sua risposta lo fece arrossire di contentezza.
«Dei ragazzi di qui? Ma vuoi scherzare? Prima di tutto non mi piacciono perché sono incredibilmente inesperti e poi non sopporto l'odore di aia che quasi tutti si portano addosso. Però penso che Orso Polare Hovre sia abbastanza carino.»
Orso Polare, soprannominato così perché aveva tutti i capelli bianchi, era il figlio del capo della polizia del Distretto di Arden; era un ragazzo alto, piuttosto robusto, all'inarca della stessa età di Duane, che veniva spesso su alla fattoria Updahl a fare gli occhi dolci ad Alison. Orso Polare era famoso per le sua bravate, anche se non era mai stato espulso da nessuna scuola.
«Anche lui pensa che tu sia carina, ma immagino che perfino uno zoticone come Orso Polare non potrebbe fare a meno di notarlo.»
«Però tu sai che io amo solo te» lo rassicurò Alison, ma lo disse con tale indifferenza che le sue parole suonarono vuote.
«Okay, te lo concederò» le rispose lui, convinto di apparire un uomo di mondo, di aver detto qualcosa che avrebbe potuto dirle il suo insegnante di disegno.
In cucina, Duane si era messo ad urlare, ma sia loro, sia le loro madri, assorbite dalle loro chiacchiere, lo ignorarono.
«Che cosa stavi dicendo a proposito dell'inverno? Che sta per cominciare?»
Lei gli sfiorò il naso con un dito e lui si sentì infiammare le guance. «Sì, perché esattamente un mese fa era il giorno più lungo dell'anno e da allora le giornate hanno cominciato ad accorciarsi. L'estate sta finendo, mio caro. Ti piace la zia Rinn? A me fa venire i brividi. È davvero andata fuori di testa.»
«Hai assolutamente ragione» disse lui con impeto. «Fa proprio paura. Ieri mi ha detto una cosa su di te, mentre la mamma era fuori a guardare le piante dell'orto.»
Alison diede l'impressione di irrigidirsi, come se sapesse già che qualunque commento la vecchia donna avesse fatto su di lei non poteva essere lusinghiero. «Che cosa ha detto? Dà troppa retta a quello che dice mia madre.»
«Mi ha detto ... mi ha detto di guardarmi da te. Ha detto che rappresenti un'insidia per me. Ha detto che tu rappresenteresti un'insidia per me anche se non fossimo cugini, anche se non ci conoscessimo del tutto, ma che il fatto di essere parenti peggiora la situazione. Non volevo dirtelo.»
«Un'insidia» disse Alison. «Chi lo sa, forse un giorno ti attirerò in qualche trappola. Be', non sembra una cattiva idea.»
«Soprattutto per me, intendi dire.»
Lei sorrise, senza assentire né dissentire, rotolò nella posizione supina di prima, e si rimise a fissare il cielo stellato. Quando riprese a parlare disse: «Mi sono stufata. Perché non facciamo qualcosa per festeggiare l'inizio dell'inverno?»
«E che vuoi fare? Non c'è niente da fare qui.»
«Sono sicura che a Orso Polare verrebbe in mente qualcosa» gli rispose lei sottovoce. «Ecco, ho trovato. Potremmo andare a nuotare. Dai, andiamo su alla cava. Ho voglia di fare una nuotata. Che ne dici? Dai, andiamo.»
Lui non ne sembrava troppo convinto. «Non penso che ci daranno il permesso.»
«Aspetta e vedrai. Ti farò vedere come nuotiamo noi in California.»
Lui le chiese come avrebbero fatto a raggiungere la cava, che si trovava sulle colline subito fuori Arden e distava otto miglia dalla fattoria.
«Aspetta e vedrai.» Con un balzo, Alison fu in piedi e si diresse con passo marziale verso la casa. Anche per quella settimana Oral Roberts aveva finito di curare i malati con le preghiere e l'eco delle sue orazioni aveva lasciato il posto alle note di un'orchestra da ballo, che si mescolavano alle voci delle loro madri. Il ragazzo fece una corsa per raggiungere la cugina e la seguì oltre la porta a zanzariera della veranda.
Loretta Greening, una versione più alta e più dolce di Alison, era seduta sotto il portico accanto a sua madre. Le due donne si assomigliavano molto. Sua madre sorrideva, mentre Alison ostentava la sua solita espressione mista di eccitazione nervosa e insoddisfazione. Dopo un po' il ragazzo notò la presenza di Duane, seduto su una poltroncina di paglia all'estremità della veranda: batteva ritmicamente il pugno contro la coscia senza far rumore e guardandolo si sarebbe detto che fosse molto più scontento della signora Greening. Fissava Alison come se la odiasse, ma lei fece finta di non notarlo.
«Dammi le chiavi della macchina», disse Alison. «Vogliamo andare a fare un giro.»
La signora Greening guardò la sorella e scrollò le spalle.
«Oh, no!» esclamò la madre del ragazzo. «Alison è troppo giovane per guidare.»
«È per fare un po' di pratica», intervenne Alison. «Andiamo solo in qualche strada di campagna. Devo esercitarmi un po', se no non ce la farò mai a superare l'esame.»
Duane continuava a fissarla.
«Io ho questa teoria», disse la signora Greening rivolgendosi alla sorella. «Ai figli bisogna lasciar sempre fare quello che vogliono.»
«Così imparerò dai miei errori.»
«Ma non pensi ...» cercò di obiettare la madre del ragazzo.
«Ecco qua», disse Loretta Greening lanciando le chiavi alla figlia. «Ma ti prego, fa attenzione a quel vecchio imbecille di Hovre. Sarebbe più contento di darti una multa che di masticare quel suo disgustoso tabacco.»
«Oh, ma noi non andiamo dalle parti di Arden» disse Alison.
Duane aveva appoggiato entrambe le mani sui braccioli della poltrona. D'un tratto, il ragazzo ebbe la nauseante certezza che avrebbe chiesto di unirsi a loro e che sua madre avrebbe insistito affinché lasciassero a lui il compito di guidare la vecchia Pontiac dei Greening.
Ma Alison agì con tale prontezza da non lasciare né a Duane né a sua madre il tempo di aprire bocca. «Okay, grazie», disse e fece un rapido dietro-front in direzione della porta. Prima che il ragazzo potesse reagire, Alison stava già scivolando al posto di guida.
«Ce la siamo cavata niente male, vero?» disse alcuni minuti dopo, mentre lasciavano la strada della valle per immettersi sulla statale per Arden. Lui si era voltato a guardare nel lunotto dove gli sembrava di aver visto i fari del camioncino di Duane; ma poteva benissimo trattarsi del camion di qualunque altro contadino della valle.
Stava per assentire, quando Alison riprese a parlare, dando voce, stranamente, ai pensieri che stavano attraversando la mente di lui. In realtà, questa era una cosa che capitava spesso ai due cugini: avevano la straordinaria capacità di accedere l'uno ai pensieri e alle fantasie dell'altra, e il ragazzo pensò che probabilmente era questo che aveva colpito zia Rinn.
«Duane stava per chiederci di unirsi a noi, te ne sei accorto? Non avrei niente contro di lui, se non fosse così pa-te-ti-co. Non so come, ma sembra che non sia mai capace di combinare niente di buono. Hai visto la casa che ha cominciato a costruire per la sua fidanzata?» disse ridendo scioccamente. La storia della casa era diventata una barzelletta nella nostra famiglia, ma era un argomento tabù in presenza dei genitori di Duane.
«Ne ho sentito parlare» rispose il ragazzo. «In effetti sembra una cosa piuttosto ridicola. Sai che non ha voluto farmela vedere? In realtà io e lui non andiamo molto d'accordo. L'hanno scorso abbiamo fatto una gran baruffa.»
«E tu non sei andato a darle un'occhiata nemmeno di nascosto? Oh Dio, è pazzesca. È...» Scoppiò a ridere, incapace di trovare un altro aggettivo per descriverla meglio. «In ogni caso», aggiunse riprendendo fiato «Duane non vuole che se ne parli. Non puoi fare neanche il più piccolo commento ...» E ricominciò a ridere senza riuscire a controllarsi.
Poiché l'auto continuava a zigzagare fra le due corsie, lui le chiese: «Ma dove hai imparato a guidare? I miei non mi lasciano neppure avvicinare alla macchina.»
«Oh, dai greaser, i messicani, con cui esco ogni tanto.»
Lui si limitò a grugnire. Non aveva idea di chi potessero essere questi messicani, ma gli piacevano ancor meno dell'insegnante di disegno.
«Sai che cosa dovremmo fare?» riprese Alison. «Dovremmo fare un patto. Ma un patto serio. Un voto. Per essere sicuri che qualsiasi cosa succeda, qualsiasi uomo o donna noi sposeremo, perché non potremo mai sposarci fra di noi, noi resteremo in contatto ... no, meglio dire uniti, sì uniti per sempre.» Per un istante lei lo fissò con uno strano sguardo, poi accostò la macchina al ciglio della strada. «Dobbiamo giurare. È importante, altrimenti non saremo mai sicuri.»
Lui la guardò senza parlare, sorpreso dall'improvvisa emozione che si era impadronita di lui. «Intendi dire una promessa di continuare a vederci anche quando saremo sposati?»
«Sposati o non sposati, che abitiamo a Parigi o in Africa ... niente. Diciamo...diciamo che ci reincontreremo qui in un giorno preciso. Facciamo questo stesso giorno fra dieci anni esatti. No, dieci anni sono troppo pochi. Fra vent'anni. Io allora ne avrò trentaquattro e tu trentatré, cioè saremo tutti e due molto più giovani delle nostre madri. Il 21 luglio del... 1975. Se non arriverà prima la fine del mondo. Promettilo. Giuralo.» C'era una tale intensità nello sguardo di sua cugina che lui non ebbe il coraggio di buttare tutto in ridere.
«Lo giuro.»
«Lo giuro anch'io. Alla fattoria, fra venti anni esatti. E se tu ti dimenticherai io verrò a cercarti. E se ti dimenticherai, che Dio ti aiuti.»
«D'accordo.»
«Adesso dobbiamo baciarci.»
Il ragazzo ebbe l'impressione che il suo corpo fosse diventato leggero come una piuma, mentre il viso di Alison gli appariva molto più grande di quanto non fosse in realtà, più provocante, quasi una maschera. Ma dietro la maschera i suoi occhi brillavano rivolti a lui. Con qualche difficoltà costrinse il suo corpo a spostarsi lungo il sedile. Il suo cuore cominciò a battere all'impazzata. Quando, all'improvviso, l'enorme viso di Alison si avvicinò al suo, le loro labbra si sfiorarono e la prima sensazione che provò fu di sorpresa per la morbidezza vellutata delle labbra di lei. Ma quella prima impressione fu immediatamente soppiantata dalla consapevolezza del suo respiro caldo: adesso Alison stava premendo con maggior forza la bocca contro la sua e lui sentiva le sue mani sulla nuca. Poi la sua lingua guizzò fra le sue labbra.
«È questo quello di cui ha paura la zia Rinn» gli sussurrò, trasmettendogli il calore della sua bocca. Poi lo baciò di nuovo e lui sentì il proprio corpo fremere.
«Tu mi fai sentire come un ragazzo» disse Alison, «e questo mi piace.»
Quando si scostò da lui, abbassò gli occhi sul suo grembo. Lui la fissò con aria sbalordita. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, era disposto a dare la sua vita, anche subito, per lei.
«Vai mai a nuotare di notte?»
Lui scosse la testa.
«Vedrai, ci divertiremo un mucchio», proseguì la cugina e, dopo aver riacceso la macchina, si rimise sulla carreggiata con una brusca sterzata. Lui si voltò nuovamente a guardare nel lunotto e vide i fari di un altro veicolo ad una trentina di metri da loro. «Penso che Duane ci stia seguendo.»
Alison si affrettò a controllare guardando nello specchietto retrovisore. «Non lo vedo.»
Lui si voltò una seconda volta. I fari erano scomparsi. «Ma prima era lì.»
«Non oserebbe mai fare una cosa del genere. Non preoccuparti di Duane. Immagina cosa dev'essere avere un nome del genere.»
Il ragazzo scoppiò a ridere sollevato, ma solo per un attimo perché il riso gli morì in gola. «Non abbiamo portato i costumi! Adesso ci tocca tornare indietro.»
Alison lo guardò in modo strano. «Non hai le mutande?»
Il ragazzo scoppiò in una seconda risata di sollievo.
Quando raggiunsero la strada sterrata che conduceva alla cava in cima alla collina, il ragazzo si voltò a controllare che nessuno li seguisse, ma tutto quel che vide furono le luci di una fattoria in fondo alla strada. Alison accese la radio e le note di "Yakety Yak" si riversarono nell'abitacolo, assordandoli.
Una folta barriera di cespugli separava i gradini irregolari che scendevano alla cava dall'area erbosa e pianeggiante in cui avevano parcheggiato la macchina. «Qui andrà bene» disse Alison. Poi, ripensandoci, accese di nuovo la radio. « ... e per Johnny, Jeep e il gruppo A.H.S. del Reuter's Drive In, Les Brown e la sua Band of Renown con Lover come back to me», disse la voce melliflua dell'annunciatore. «E per Reba e LaVonne dell'Arden Epworth League, Les Brown con Lover come back to me.»
Dall'area pianeggiante, dove un tempo sorgevano le baracche degli operai, partiva un sentiero di terra ed erba che, attraverso un'apertura nella fila di cespugli, conduceva ai gradini di pietra che portavano al limite della cava. Dopo aver seguito Alison giù dai gradini, il ragazzo indugiò alcuni istanti accanto alla cugina sul bordo di un'ampia lastra che sovrastava di circa mezzo metro la superficie nera dell'acqua. Come di tutte le cave, anche di quella si diceva che fosse senza fondo, e il ragazzo non aveva alcun dubbio in merito: quell'acqua nera e immobile sembrava inviolata; chiunque l'avesse profanata immergendovisi, sarebbe precipitato in una caduta inarrestabile.
Nessuna riflessione del genere turbava la mente di Alison, che si era già liberata della camicetta e delle scarpe ed era sul punto di sfilarsi la gonna. Il ragazzo si rese conto di avere gli occhi incollati sul suo corpo e che lei se ne era accorta, ma apparentemente non gliene importava nulla.
«Forza, spogliati», si limitò a dirgli Alison. «Sei lento come una lumaca, cugino. Se non ti muovi sarò costretta a venire a darti una mano.»
Il ragazzo si affrettò a togliersi la camicia. In slip e reggiseno Alison lo osservava dal bordo della lastra. Scarpe, calze e infine i pantaloni. L'aria fresca della sera gli accarezzò le spalle e il petto e in quello stesso istante Alison gli rivolse un ampio sorriso di approvazione.
«Vuoi che facciamo quello che facciamo noi in California?»
«Ah-ah.»
«Allora facciamo il bagno come ci ha fatto mamma.»
«Che cosa vuol dire come ci ha fatto mamma?» chiese il ragazzo, ma pensava di avere capito.
«Guarda me.» Sorridendo, Alison abbassò le mutandine e le sfilò. Poi portò le mani dietro la schiena e si slacciò il reggiseno. Dalla radio giungevano le note languide di una canzone di Ray Antony, che raccontava la triste storia di un amore non corrisposto. «Dai, fallo anche tu», riprese la ragazza. «Non hai idea della meravigliosa sensazione che si prova.»
Un rumore proveniente dagli anfratti rocciosi alle loro spalle lo fece trasalire. «Hai sentito anche tu qualcuno tossire?»
«Non mi risulta che gli uccelli tossiscano. Dài, muoviti.»
«Okay.» Il ragazzo si tolse a sua volta le mutande e quando alzò di nuovo lo sguardo sulla cugina, lei si stava tuffando. Il ragazzo la fissò incantato. Sotto la superficie nera dell'acqua il suo corpo risplendeva di una strana luce bianca mentre scivolava a lungo verso il centro del bacino. Poi, lentamente, Alison riemerse e, con un rapido movimento del capo, che tradiva la disinvolta sicurezza di una donna, gettò i capelli all'indietro.
Doveva assolutamente raggiungerla, stare vicino a lei. Fece presa con i piedi contro il bordo della lastra e si tuffò di pancia: l'impatto con l'acqua fredda lo colpì come una potente scossa elettrica e gli infiammò la pelle, ma nulla avrebbe potuto stordirlo di più di quel gesto di sapiente femminilità di Alison: più dei suoi accenni ai greaser o all'insegnante di disegno, quel gesto l'aveva trasformata in una creatura sconosciuta.
Gli bastarono pochi istanti per abituarsi alla temperatura dell'acqua e quando riemerse vide sua cugina che si allontanava, fendendo l'acqua con bracciate agili ed eleganti. Si rese conto che nuotava assai meglio di lui e questo lo ferì profondamente, anche perché si era sempre vantato delle sue capacità natatorie. Ed era anche molto più forte, perché non appena aveva cercato di raggiungerla, lei aveva aumentato, senza alcuna fatica, la frequenza delle bracciate, distanziandolo ulteriormente. Quando ebbe raggiunto l'estremità del bacino, Alison fece una rapida virata sott'acqua, per poi riemergere con un guizzo potente ed elegante al tempo stesso. Le sue spalle e le sue braccia brillarono nell'oscurità. Anche il resto del suo corpo risplendeva, misterioso e deformato dall'acqua. Lui si fermò, agitando i piedi per restare a galla, e attese che lei lo raggiungesse.
Poi, d'un tratto, smorzato dai brani di musica da ballo che provenivano dalla radio, il ragazzo udì un altro rumore sopra di loro, e alzò di scatto la testa, aguzzando la vista. Qualcosa di bianco volteggiò rapidamente dietro la fila più rada di cespugli; dapprima ebbe l'impressione che si trattasse di una camicia bianca, ma qualsiasi cosa fosse adesso non si muoveva più, anzi era così immobile da stentare a credere che potesse essersi mai mossa: sembrava il semplice riflesso della luce della luna sulla roccia.
Dalla parte opposta della cava, dietro di lui, provenne un fischio, simile ad un richiamo. Il ragazzo si voltò a scrutare il paesaggio immerso nella tenebra, ma non vide nulla.
Adesso Alison si stava avvicinando a lui: nuotava con tale grazia, che le sue lunghe bracciate facevano appena increspare il pelo dell'acqua. Poi, d'un tratto, raddrizzò il busto ed eseguì una splendida immersione: per un attimo il suo sedere balenò alla luce della luna, poi tutta la sua persona scomparve sott'acqua. Il ragazzo sentì le sue mani stringersi intorno alle caviglie e fece appena in tempo a inspirare una boccata d'aria, prima di venire trascinato anche lui verso il fondo.
Quindi, mentre erano entrambi immersi nell'acqua scura, Alison lo afferrò alla vita e gli sorrise. Lui le toccò le mani, che erano fredde e morbide; poi, si fece coraggio e le accarezzò i capelli e la testa rotonda. Lei strinse ulteriormente la presa e, sfruttando la forza dei muscoli delle spalle, lo costrinse a rovesciarsi a pancia in su; dopodiché scivolò sopra di lui, gli passò le braccia dietro la nuca e iniziò a mordicchiargli il collo. Le loro gambe, sovrapposte le une alle altre, si toccavano e lui cominciò a sentire l'eccitazione salirgli alla testa. Quando quello che lei aveva risvegliato le sfiorò lo stomaco, Alison si liberò dall'abbraccio e risalì lentamente alla superficie. Trattenendo gli ultimi secondi d'aria che gli restavano, il cugino indugiò ad ammirare il suo corpo senza testa che dondolava nell'acqua, un'incredibile messe di perfezione quasi mistica: i piccoli seni che si sollevavano e si abbassavano ritmicamente, le gambe piegate a descrivere una curva mozzafiato; le mani e i piedi che luccicavano come stelle candide. L'eccitazione gli obnubilò la mente, cancellando tutto il resto, e lui scivolò lentamente accanto a lei, sfiorando il mondo perfetto e selvaggio della sua pelle.
Per alcuni secondi, l'acqua lo rese cieco e quando fu nuovamente in grado di vedere si accorse che i suoi occhi stavano fissando un lungo ciuffo di capelli lisci e lucenti. Alison gli aveva stretto un braccio intorno al collo e adesso premeva con forza lo zigomo contro la sua mascella. Facendo appello a tutte le sue energie, lui si liberò della presa e la costrinse a voltarsi verso di lui. Poi, però, costretto nella cavità del suo collo, finì con la testa sott'acqua e la udì scoppiare in una risata fragorosa. Le sue gambe scalciavano intorno a quelle di lei, e, in un attimo, furono di nuovo sotto, uniti in un abbraccio convulso. Con la mente travolta dalla passione, il ragazzo trascinò la cugina verso acque ancor più profonde e più fredde, fino a quando lei lo colpì alle orecchie, che gli rintronarono dolorosamente.
Ma adesso gli sembrava che tutto intorno a lui rintronasse: l'acqua lo avviluppava come una coperta, mentre il corpo perfetto e scivoloso di Alison lottava per liberarsi. Raggiunsero di nuovo la superficie ed avevano appena ripreso fiato, quando l'acqua esplose in un tumulto improvviso. Alison cessò immediatamente di ridere e si aggrappò alla sua testa, accartocciandogli le orecchie. Adesso gli sembrava che la cava fosse popolata da centinaia di esseri, che si dibattevano contro i vortici dell'acqua, che lottavano per restare a galla e per respirare. L'acqua ribolliva echeggiando cupamente, e ogni volta che tutti i loro corpi, il loro unico corpo, rompevano la superficie, esplodevano geyser di schiuma.
IN VIAGGIO VERSO ARDEN
CAPITOLO PRIMO
Ogni storia ha un suo antefatto ed è proprio la conoscenza degli eventi dai quali ha avuto origine che ci pone in condizione di comprenderla. (Forse è questa la ragione per cui insegno narrativa e non poesia, perché la vicenda racchiusa in una poesia non può che riassumersi in una mezza dozzina di versi). Tuttavia, proprio perché sono consapevole dell'importanza degli avvenimenti passati per la storia che mi accingo a raccontare, preferisco lasciare trapelare le informazioni solo al momento opportuno, anziché spiattellarle tutte subito all'inizio. Io so, e qui parla l'insegnante di letteratura, il professore (si fa per dire) di narrativa moderna, che ciascun racconto, per quanto gravato di storia, è un'unità parlante, un nodo parlante, una gemma. Forse apprezziamo di più un diamante se conosciamo i nomi delle persone che l'hanno posseduto, le liti sanguinose o i fallimenti matrimoniali di cui è stato testimone, ma non per questo possiamo dire di conoscerlo meglio. La stessa considerazione vale per l'amore e per le storie di innamorati: vicende di mogli indifferenti e di mariti perdigiorno, perfino i caratteri costitutivi delle singole personalità giacciono sparpagliati per terra, in attesa di essere indossati insieme ai vestiti. Perciò, inizierò il mio racconto a questo punto di questo goffo paragrafo, cominciando dal giorno torrido di fine giugno in cui, alla guida della mia vecchia Volkswagen, mi stavo lasciando alle spalle New York, diretto nel Wisconsin. Mi trovavo in quel limbo compreso fra la giovinezza e la mezza età in cui i cambiamenti sono più che mai necessari e in cui è imperativo abbandonare i vecchi orizzonti e incamminarsi su nuove strade. A quell'epoca avevo divorziato da un anno, divorziato in senso spirituale intendo, non legale: sì, perché mia moglie era mancata sei mesi dopo avermi lasciato e questa circostanza mi aveva sollevato per sempre dalla necessità di ricorrere ad una sentenza del giudice. (Non riesco a nascondere la mia amarezza, anche adesso che Joan è morta.)
Stavo guidando da un giorno e mezzo, procedendo alla velocità massima compatibile con le prestazioni della mia auto e la severità della polizia stradale. Avevo trascorso la notte in uno squallido motel dell'Ohio, un motel così anonimo che ne avevo dimenticato il nome, e il nome della città alla periferia della quale sorgeva, non appena mi ero reimmesso sull'autostrada. Poiché avevo avuto un incubo piuttosto angosciarne, la mia ansia di libertà era quanto mai grande, così come il mio desiderio di respirare un'aria diversa. Ogni singola cellula, ogni fibra nervosa del mio corpo erano avvelenate dai gas di scarico e dalla rabbia che avevo represso; avevo bisogno di immergermi nella pace sempre uguale che solo il verde può regalare, avevo bisogno di giorni tranquilli in cui terminare (in verità, scrivere quasi per intero) la dissertazione che mi avrebbe permesso di mantenere il mio impiego. Sì, perché, come accennavo prima fra le righe, non sono titolare di cattedra, ma, più semplicemente, un docente incaricato, e pure con l'acqua alla gola.
Le macchine, in particolare la mia, mi rendono nervoso e straordinariamente incline al cattivo umore. In auto, ogni uomo siede solo nella sua bara di metallo lunga un paio di metri, in mezzo a quei cimiteri rumorosi che sono gli ingorghi stradali. (Potrò anche essere totalmente incompetente sul fronte della meccanica, ma sono capace di ridurre la morte ad una metafora ... il giorno dopo averla sognata!) Probabilmente, io sono in grado di "vedere" le cose, anche se di solito le mie allucinazioni hanno una provenienza diversa, cioè il naso. (Alcuni "vedono" le cose, io ne "sento l'odore".) Ricordo un episodio accadutomi alcuni anni fa, mentre percorrevo una strada di campagna fuori Boston; allora vivevo nel Massachussets e rammento che in quel periodo stavo tenendo alcune lezioni sul Tom Jones. Ad un certo punto i fari della mia auto illuminarono un cartello stradale che segnalava la prossimità di una curva pericolosa. Quando iniziai a sterzare, mi accorsi che la strada cominciava a salire in forte pendenza e spinsi l'acceleratore a tavoletta. Adoro affrontare le salite lanciando la macchina alla massima velocità. Ero appena uscito dalla curva e stavo attaccando il pendio, con il motore che ringhiava come uno schnauzer, quando udii un frastuono terrificante provenire dalla cima della collina. Un secondo più tardi il sangue mi si raggelò nelle vene: una diligenza si stava precipitando a valle, sbandando da ogni parte, ormai priva di controllo. Riuscivo a distinguere chiaramente i quattro cavalli, che correvano ostacolati dai bardamenti, la luce vacillante delle lampade e il guidatore che cercava invano di tirare le redini, il viso contratto in una maschera di terrore. Zigzagando e sobbalzando minacciosamente, l'alto veicolo di legno si stava dirigendo proprio contro la mia macchina. Ero ormai convinto che avrei visto la morte in faccia. Sconvolto dalla paura cominciai ad armeggiare con i comandi dell'auto, incapace di capire se fosse meglio cambiare marcia, spegnere il motore o rischiare il tutto per tutto accelerando al massimo, nella speranza di riuscire a superare il postale prima che mi investisse. All'ultimo momento recuperai sufficiente lucidità per decidere di buttarmi tutto sulla destra: la diligenza mi oltrepassò con la velocità di un fulmine, schivandomi di una spanna, mentre le narici mi si riempivano dell'odore di sudore dei cavalli.
Dopo essermi calmato ripresi la strada. Doveva essere stato il solito scherzo stupido architettato da qualche confraternita o club di studenti imbecilli di Harward o dell'Università di Boston. Ma subito dopo mi resi conto che era troppo tardi per simile bravate - erano le tre di notte passate - e che, in ogni caso, non si lancia una carrozza a tutta velocità giù per una discesa, perché è destinata a capovolgersi e schiantarsi. La logica di quel ragionamento era così cristallina che dopo un po' mi chiesi perfino se l'avessi vista davvero quella diligenza, o se non me la fossi per caso sognata. Così decisi di ritornare sui miei passi; percorsi oltre cinque miglia, una distanza più che sufficiente per raggiungerla, se fosse riuscita a proseguire miracolosamente la sua corsa, e ancor di più per rinvenirne i rottami nel caso in cui avesse carambolato: ma la strada era deserta, e alla fine a me non restò altro da fare che tornare a casa e dimenticare l'accaduto. Un anno dopo, un mattino in cui mi stavo radendo ascoltando pigramente un programma radiofonico sul soprannaturale, un'ascoltatrice telefonò in redazione raccontando di come una notte, mentre percorreva in auto una strada di campagna nei dintorni di Boston, si fosse imbattuta in una diligenza che si precipitava verso valle a tutta velocità, puntando diritto contro la sua macchina. Poco ci mancò che il mio cuore di asmatico non cessasse di battere per lo shock. E quel giorno, mentre guidavo, non so come, mi tornò in mente quell'episodio. Penso che ogni volta che qualcuno o qualcosa verrà a farmi visita dall'altro mondo, accadrà sempre mentre sono al volante di un'auto.
Stavo sudando ed ero di pessimo umore. Mancavano forse una trentina di miglia ad Arden, il motore sferragliava e sul sedile posteriore alcuni scatoloni pieni di libri e di appunti sobbalzavano rumorosamente. Dovevo finire quella tesi a tutti i costi, altrimenti la Commissione per gli Avanzamenti e le Promozioni, composta da sette pasciuti professoroni di Long Island, mi avrebbe dato il benservito. Mi auguravo con tutto il cuore che mio cugino Duane, che abita nella nuova fattoria che sorge vicina a quella in cui hanno vissuto i miei nonni, avesse ricevuto il mio telegramma e avesse provveduto a far pulire la vecchia casa di legno in cui avevo intenzione di prendere alloggio. Che lo facesse Duane in persona, era piuttosto improbabile. Quando raggiunsi un paesino, che sapevo chiamarsi Plainview, mi fermai a mangiare un piatto di chili, anche se non avevo fame. Mangiare è un'affermazione, l'ingordigia è vita e il cibo un antidoto. Il giorno in cui Joan era morta, io avevo aperto il frigorifero e avevo trangugiato un'intera torta alla crema.
Plainview è il posto in cui i miei si fermavano sempre a mangiare quando andavamo a trovare la nonna, e per raggiungerlo dovetti fare una deviazione piuttosto lunga. Allora, era un piccolo villaggio attraversato da un'unica strada, lungo la quale sorgevano due negozi di alimentari assai modesti, un hotel, una farmacia Rexall, una taverna e la tavola calda dove sostavamo per rifocillarci. Con gli anni il paesino era cambiato e adesso, al posto del secondo negozio di alimentari, c'era il cinema Roxy; il quale, tuttavia, non aveva conosciuto miglior fortuna dell'esercizio che l'aveva preceduto ed era stato costretto a chiudere i battenti. All'esterno, la tavola calda era rimasta uguale, ma non appena entrai vidi che i vecchi banchetti da chiesa che un tempo correvano lungo i muri avevano ceduto il posto a nuovi tavoli rivestiti di quel tessuto plastificato che è perennemente appiccicoso. Mi sedetti all'estremità del bancone.
La cameriera si avvicinò pigramente, si protese verso di me e, mentre ordinavo, tentò invano di fare un paio di palloni con il chewing-gum, senza mai smettere di fissarmi. Sapeva di olio per neonati e di denti marci, ma soprattutto di denti marci.
In realtà, la ragazza non aveva alcun odore specifico. Come ho già detto, io soffro di allucinazioni olfattive. Io sento l'odore delle persone anche quando parlo con loro al telefono. Una volta ho letto di qualcuno con un simile potere in un romanzo tedesco, dove se ne parla in termini di una facoltà quasi affascinante e piacevole, una specie di dono. In realtà non è né affascinante né piacevole, ma soltanto inquietante e sconvolgente. La maggior parte degli odori che sento mi attanaglia i nervi.
La cameriera si allontanò, scribacchiando l'ordine su un bloc-notes, e si ricongiunse ad un gruppetto di uomini intenti ad ascoltare la radio all'altra estremità del banco. Gli uomini se ne stavano addossati gli uni agli altri, senza preoccuparsi dei loro piatti di carne trita e patate che si raffreddavano. Dal loro atteggiamento, dalla rabbia trattenuta dalle loro possenti spalle e dall'espressione sconcertata dei loro volti, ne dedussi che doveva essere accaduto qualcosa di grave che li riguardava da vicino. Le frasi smozzicate che mi giungevano dalla radio me ne diedero la conferma: "Ancora nessun passo avanti nella sconvolgente ... la scoperta della dodicen ... appena otto ore dopo ...." Alcuni di loro mi lanciarono un'occhiata torva, come se io non avessi il diritto di sentire neppure quei frammenti di notizie.
Quando la cameriera mi portò il mio piatto di chili le chiesi: «Che cosa diavolo è successo?»
Uno degli uomini, un impiegatucolo pelle e ossa, che portava un paio d'occhiali con montatura a giorno e un logoro abito doppio petto, si calcò il cappello sulla testa rosea ed allungata e uscì dal locale, sbattendo la porta a zanzariera.
La cameriera lo seguì con sguardo assente, dopodiché abbassò gli occhi per esaminare il suo grembiule blu, tutto macchiato. Quando alzò nuovamente la testa e mi guardò, mi accorsi che era ben più vecchia dell'adolescente per la quale l'avevo scambiata: i capelli biondo platino e il rossetto di colore sgargiante male si addicevano al suo viso, che cominciava a mostrare i segni dell'età. «Lei non è di queste parti» disse.
«Esatto», risposi io. «Che cos'è successo?»
«Da dove viene?»
«Da New York. Perché, che importanza ha?»
«Importa, amico, importa», disse una voce maschile dalla parte opposta del banco. Mi voltai per vedere chi avesse parlato e vidi che si trattava di un giovane robusto, con la faccia da luna piena, i capelli biondi e radi e la fronte molto corrugata. Gli altri raggruppati intorno a lui, fecero finta di non aver sentito, ma io vidi i loro bicipiti contrarsi sotto le maniche corte della camicia. Il ragazzo con la faccia da luna piena si piegò in avanti sulla sedia e appoggiò le palme delle mani sulle ginocchia, in modo da far gonfiare i muscoli degli avambracci.
Io portai deliberatamente alla bocca un cucchiaio di chili: era caldo e insipido. L'ingordigia è vita. «D'accordo, importa» gli dissi. «Sono di New York e se non volete dirmi quello che è successo fa lo stesso. Posso sentirlo da solo alla radio.»
«Adesso chiedi scusa a Grace-Ellen.»
Ero sorpreso. «Scusa per che cosa?»
«Per aver imprecato.»
Guardai la cameriera. Se ne stava appoggiata al muro dietro il banco cercando di mostrarsi offesa.
«Se ho inveito contro di lei, le chiedo scusa» dissi.
Sentivo gli occhi degli uomini perforarmi il viso e sentivo la loro ostilità crescere, incerta su quale direzione prendere, o se dovesse sfogarsi.
«Porta il tuo culo fuori di qui, bastardo» disse il biondo con la faccia da luna piena. «Un momento. Frank, prendi il numero di targa del nostro pezzo grosso. Alzò una mano robusta nella mia direzione, mentre un uomo minuto in bretelle, uno di quei tipi servili fin nel midollo, saltava giù dalla sua sedia e si precipitava fuori verso la mia macchina. Attraverso la vetrina lo vidi estrarre un pezzo di carta dal taschino della camicia e scriverci sopra qualcosa.
Il ragazzo con la faccia da luna piena abbassò la mano carnosa e disse: «Adesso porto quel numero alla polizia. Allora hai intenzione di continuare a stare seduto lì a dire stronzate o hai deciso di alzare le chiappe?»
Io mi alzai. Erano in tre, senza contare Frank, che però non valeva niente. Sentii rivoli di sudore freddo corrermi lungo i fianchi. A Manhattan un confronto così sarebbe durato un quarto d'ora, con entrambe le parti ben coscienti che nessuno avrebbe osato un gesto più violento di quello di girare i tacchi e andarsene. Ma nell'atteggiamento del giovanotto biondo e muscoloso non mi sembrò di scorgere la benché minima traccia del gusto newyorchese per l'insulto fine a se stesso e la finta dimostrazione di forza, e mi limitai ad azzardare un'ultima osservazione.
«Avevo solo fatto una domanda.» Lo odiavo, e odiavo la sua diffidenza per gli stranieri e le sue maniere da bullo di paese. In più sapevo che avrei odiato me stesso se me la fossi data a gambe.
Lui mi fissò con sguardo inespressivo.
Gli passai davanti, camminando lentamente. Adesso tutti gli uomini mi stavano guardando con occhi vacui e uno di loro indietreggiò con disprezzo di un paio di centimetri per permettermi di aprire la porta.
«Ehi, un momento. Non ha pagato il suo piatto di chili», protestò Grace-Ellen riprendendo vita.
«Chiudi il becco», l'ammonì il suo paladino, «non abbiamo bisogno dei suoi fottuti soldi.»
Esitai un istante, chiedendomi se avrei avuto il coraggio di gettare un dollaro per terra. «Di qualunque cosa si trattasse», dissi, «spero che succeda di nuovo, perché voi ve lo meritate.» Dopodiché guadagnai rapidamente la porta, diedi un colpetto al gancio a ruota fissato sul lato esterno e mi precipitai verso la mia Volkswagen. Sentii Grace-Ellen urlare Non buttatemi giù la porta, ma proprio in quell'istante accesi il motore e partii.
Mi ero lasciato Plainview alle spalle da oltre cinque miglia, ma la mia mente continuava a partorire fantasie. Immaginavo le frasi argute e minacciose con le quali avrei potuto rispondergli per le rime e mi venivano in mente almeno un centinaio di reazioni per le quali avrei potuto optare e non avevo optato, da una discussione civile al piatto di chili da rovesciargli su quella sua faccia rugosa. Alla fine tremavo così tanto, che fui costretto a fermarmi e a scendere dalla macchina. Avevo bisogno di allentare la tensione e sbattei la porta con tale violenza che la carrozzeria tremò tutta. Poi corsi sul retro dell'auto e presi a calci una delle ruote posteriori fino a quando il piede iniziò a farmi male. Quindi, sbattei per un po' il pugno sul cofano del motore, immaginando di prendere a pugni il ragazzo biondo. Alla fine, mi abbandonai esausto sul ciglio della strada, in mezzo alla polvere e all'erba. Il sole mi bruciava la faccia e le mani mi pulsavano. Dopo un po', mi accorsi di essermi strappato un triangolo di pelle alla base della mano sinistra, che si stava rapidamente coprendo di sangue. Mi avvolsi alla meglio un fazzoletto intorno al palmo e quando lo strinsi sentii la ferita pulsare di più ma il dolore diminuire, due sensazioni ugualmente piacevoli. All'improvviso, mi balenò nella mente un ricordo, che si dipanò allo stesso ritmo del sangue che mi pulsava nella mano. Era un ricordo di disaccordo coniugale. Il ricordo di una situazione confusa. In realtà il mio matrimonio è stato per lo più un gran casino, di cui né Joan né io eravamo responsabili, ma piuttosto l'accozzaglia malriuscita dei nostri due temperamenti totalmente diversi. Era una divergenza unica, in qualsiasi campo. Io adoravo i film in cui abbondavano sparatorie e ammazzamenti, mentre lei stravedeva per quelli d'essai. Di sera a me piaceva restare a casa a leggere e ad ascoltare un po' di musica, a lei andare alle feste per intavolare discussioni con barbosi signori in camicia bianca e cravatte a righe. Io sono di natura monogama, lei invece poliandrica. Joan apparteneva a quella categoria di persone totalmente incapaci di fedeltà sessuale, al punto da considerarla come la morte della fantasia. Per quanto ne so, fino a sette mesi prima di morire, aveva avuto cinque amanti, ciascuno dei quali aveva rappresentato un duro colpo per me: l'ultimo era stato un certo (chiamiamolo) Dribble. Stava nuotando insieme a lui, ubriaca fradicia, quando è affogata. Nell'episodio che mi era riaffiorato alla memoria eravamo proprio a cena a casa di costui. In mezzo ai soliti poster che tutti avevano all'epoca (l'effigie del Che, La Guerra fa Male ai Bambini e tutti gli altri Esseri Viventi) e i paperback di Edgar Rice Burroughs e Carlos Castaneda, mangiammo chili e bevemmo vino rosso di Almaden Mountain. Fu solo quando iniziò la parte musicale della serata e vidi Joan ballare con Dribble al ritmo di una canzone dei Rolling Stones, che capii che erano diventati amanti. Una volta ritornati a casa io le feci una scenata terribile, che si risolse, fra l'altro, con danni irreparabili ad un tavolino e alle tende del salotto ... Io ero convinto che stessimo attraversando un periodo buono e mi sentivo tradito. L'accusai. Lei negò vivamente, poi, altrettanto vivamente si rifiutò di negare e io la schiaffeggiai. Oh, questi errori di un cuore ottimista! Lei prese fiato e poi mi chiamò "maiale". Mi disse che non l'avevo mai amata, che non avevo mai smesso di amare Alison Greening. Quello era il massimo che poteva osare dire, era una deliberata incursione nel mio territorio sacro. Lei se ne andò urlando e strepitando a casa di Dribble e io andai alla biblioteca dell'università, che restava aperta ventiquattr'ore su ventiquattro a fare il clown per gli studenti nei corridoi. Il mio matrimonio, di cui quell'anno avremmo festeggiato il sesto anniversario, era finito.
Era stato il ricordo di quella scena confusa che mi aveva sopraffatto mentre sedevo nella polvere accanto alla macchina. Mi sfuggì un mezzo sorriso. Forse era per vergogna - il fatto di averla picchiata mi fa arrossire di vergogna - o forse era una risposta alla strana sensazione che si era improvvisamente impadronita di me: una sensazione di libertà, la consapevolezza di avere una visione più chiara di me stesso, di essermi lasciato per sempre alle spalle la mia vecchia vita. Mi sentivo come l'aria fredda, come l'acqua blu e fredda.
Il trait d'union fra questi due episodi è ed era, come avrete capito e io comprendo solo ora, la rabbia, che rimbalzava su di me per concedermi la sensazione della libertà. La rabbia è un'emozione che non provo spesso. In genere io conduco un'esistenza tranquilla, considerando e rispettando le opinioni di tutti. Ma il mese successivo portò con sé rabbia e paura in ugual misura. Normalmente, nella mia vita di tutti i giorni a Long Island, io sono un timido e una specie di clown, anzi un clown proprio a causa della mia timidezza. Fin da quando ero ragazzino mi è sempre sembrato che esistessero segreti di competenza e di conoscenza dai quali io ero escluso. E, innocentemente, avevo sempre immaginato che la rabbia creasse una propria autorità morale.
Mi alzai dalla polvere e feci ritorno alla macchina, respirando a fatica. Il sangue era filtrato fino allo strato più esterno del fazzoletto ed ero vagamente conscio della presenza di alcune macchie rosse sulla punta delle scarpe, che pulii strusciandole contro i pantaloni. L'eco di un sogno mi assalì, violento e disorientante, e io cercai di scrollarmelo di dosso mettendo in moto l'auto. Ma evidentemente la foga con cui mi ero avventato sulla chiave dell'accensione doveva aver urtato la delicata sensibilità del motore, che, anziché accendersi, si mise a scoppiettare, poi iniziò a ringhiare con disprezzo e, infine, si ingolfò. Rimasi seduto per un po', continuando a respirare rumorosamente, poi riprovai: il motore gracchiò, ma alla fine si decise a dar segni di vita.
Fu solo quando ebbi percorso circa metà del tragitto che mi separava da Arden che accesi la radio e mi sintonizzai sull'emittente locale. E allora compresi anche la ragione dello strano comportamento degli avventori della tavola calda. Era l'ora del notiziario e il "mio" Michael Mosse mi stava ragguagliando sugli avvenimenti del giorno, compresi cinque minuti interi dedicati al riepilogo della cronaca locale e di quella internazionale. Con la sua voce profonda e cupa da commentatore, disse: «Ancora senza frutto le ricerche intraprese dalle forze dell'ordine per identificare l'autore del più efferato crimine che sia mai stato commesso ad Arden, l'omicidio a sfondo sessuale di Gwen Olson. Ricordiamo che alcuni pescatori hanno rinvenuto il corpo della studentessa dodicenne questa mattina all'alba, mentre attraversavano una zona di terra incolta, nei pressi del fiume Blundell. Il capo della polizia, Galen Hovre ha dichiarato che lui e i suoi uomini indagheranno senza posa fino a quando non saranno riusciti a far luce su questo atroce delitto. Sono trascorse appena otto ore da ...» Spensi la radio.
Anche se come qualunque americano che abiti in una grande città, ero abituato a sentire storie del genere ogni mattina a colazione, non fu per insensibilità che spensi la radio, ma perché fui sopraffatto da un'improvvisa intuizione, anzi dalla certezza che avrei visto di nuovo Alison Greening, che lei avrebbe rispettato il patto che avevamo stretto venti anni prima. Mia cugina, Alison Greening ... Non l'avevo mai più incontrata dalla sera in cui una nuotata insieme nudi aveva avuto, come conseguenza, la nostra definitiva separazione.
Non so spiegare il perché di quella fulminea sensazione, ma credo che avesse avuto origine da quella ondata di ebbrezza che si era impadronita di me poco prima, da quel senso di libertà che avevo provato mentre la mia mano pulsava e sanguinava avvolta nel fazzoletto. Quando avevo conosciuto e amato Alison, avevo visto incarnata in lei l'essenza della libertà, della libertà e della forza di volontà: sì, perché Alison faceva soltanto quello che voleva. In ogni caso, assaporai quella sensazione solo per un istante, mentre stringevo ancora fra le dita la manopola della radio, e poi la ricacciai, pensando "sarà quel che sarà". Sapevo che la ragione per cui stavo ritornando ad Arden era dovuta per metà al desiderio di mantenere la promessa che le avevo fatto quella sera alla cava.
Dopo un po', la superstrada a quattro corsie iniziò ad inerpicarsi su per una collina che conoscevo bene, e poi, scendendo bruscamente, attraversò un alto ponte di metallo, che rappresentava il primo vero punto di riferimento che si era impresso nella mia memoria di bambino. Giunto a questo tratto, mio padre diceva sempre: «Questa volta ci voliamo sopra» e accelerava, tirando il volante verso di sé. Allora io cominciavo a urlare per l'eccitazione e quando superavamo il ponte a gran velocità era come se la macchina decollasse davvero. Da lì avrei potuto correre fino alla fattoria, anche con il cuore marcio che mi ritrovavo, la pancia, le valige, gli scatoloni e tutto il resto, e cominciai a scandagliare i vasti campi di granoturco, in preda ad un momentaneo senso di benessere e di allegria.
Ma fra il ponte e la fattoria della nonna c'erano tanti altri scorci della valle che mi erano familiari: conoscevo a memoria le strade, le rare abitazioni e perfino gli alberi, elementi di un paesaggio che avevo imparato a conoscere fin dall'infanzia, immerso, come lo vedevo allora, nell'atmosfera tutta particolare della vacanza. Ma fra quei tanti elementi, tutti ugualmente importanti, tre erano, per così dire, fondamentali. Al primo incrocio dopo il ponte, lasciai la superstrada, che proseguiva in direzione di Arden, e mi immisi sulla statale, che porta nella vallata. Al limite di questa, là dove per la prima volta il viaggiatore scorge il profilo delle colline boscose che ascendono dai campi, si diparte la strada, più stretta e sconnessa, che conduce alla casa di zia Rinn. Mi chiesi che cosa ne fosse stato di quella solida costruzione di legno adesso che la zia doveva essere morta. Che fosse morta non lo sapevo con certezza, ma la logica mi portava a supporlo. I bambini non riescono mai a farsi un'idea esatta dell'età degli adulti; agli occhi di un ragazzino di dieci anni, una persona di quarant'anni non appare molto diversa da una di settanta, ma ricordo che, già allora, la zia Rinn, la sorella della nonna, mi aveva dato l'impressione di essere piuttosto anziana: non era il tipo della contadina robusta e piena di vita, che si distingueva nei picnic organizzati dalla parrocchia, ma apparteneva all'altra tipologia femminile comune da quelle parti, quella delle donne tese e magre, quasi muscolose. Quando invecchiano, queste donne sembrano prive di peso, trasparenze tenute insieme dalle rughe, anche se in realtà, spesso sono in grado di condurre, in pressoché totale autonomia, piccole fattorie. Zia Rinn doveva essersene già andata da parecchi anni; mia nonna era morta sei anni prima, alla verde età di settantanove primavere, e sua sorella era decisamente più vecchia di lei.
Rinn era sempre stata considerata una donna eccentrica dagli abitanti della valle e andare a farle visita era per me, ogni volta, una specie d'avventura. Anche adesso, pur sapendo che, con ogni probabilità, la casa del vecchio fantasma era abitata da qualche florido contadino (quasi sicuramente un mio lontano parente), anche adesso, dicevo, la stradina che, oltrepassando i campi si inerpica sulla collina verso la zona alberata dove sorge la sua casa, conservava un che di strano e di misterioso, che mi faceva accapponare la pelle. La casa era sempre stata circondata da una così fitta schiera di alberi che raramente il sole riusciva a penetrare attraverso le fronde e a scaldarne le stanze.
Immagino che la stranezza che i valligiani attribuivano a zia Rinn, avesse a che vedere con la sua condizione di zitella, uno stato da sempre considerato anomalo in campagna, dove la fertilità è un segno della grazia divina. Mentre mia nonna aveva sposato un giovane contadino della zona, tale Einar Updahl, ed aveva avuto fortuna, Rinn era rimasta a lungo fidanzata con un giovanotto norvegese che non aveva mai conosciuto. Il fidanzamento era stato organizzato da alcuni zii e zie che vivevanoln Norvegia. Per altro, questo mi sembra il solo tipo di legame che zia Rinn potesse accettare: il legame con un uomo che abitava a migliaia di miglia di distanza e che, pertanto, non rischiava di intromettersi nella sua vita. La loro storia, se ricordo bene, finì con la prematura dipartita del norvegese, che morì sulla nave che lo stava portando in America, cioè proprio nel momento in cui stava per minacciare concretamente l'indipendenza di Rinn. Tutti in famiglia, ad eccezione della suddetta, la considerarono una tragedia. Suo cognato, cioè mio nonno, le aveva costruito una casa e lei insistette per andarci a vivere da sola. Anni dopo, quando mia madre era piccola, mia nonna era andata a trovarla e l'aveva sorpresa a parlare loquacemente in cucina. Ti sei messa a parlare da sola, adesso, le chiese mia nonna. Ovvio che no, rispose Rinn. Sto parlando con il mio giovane sposo. Non ho mai avuto l'impressione che lei conoscesse bene il defunto, ma sembrava che fosse in grado di fare cose che per la maggior parte della gente sono impossibili. Conosco due versioni della storia di Rinn e della giovenca. Secondo la prima, un giorno Rinn, passando accanto alla fattoria di un contadino, suo vicino, si fermò a guardare le sue bestie che stavano pascolando nel recinto. Ad un tratto, girò su se stessa e si avviò di gran carriera verso la casa. Trascinò il contadino in istrada e, indicandogli una delle sue giovenche gli disse che il giorno dopo sarebbe morta. E così fu. Secondo l'altra versione, il contadino aveva in qualche modo offeso Rinn che, trascinatolo in istrada, gli indicò la giovenca ammonendolo che l'indomani l'animale sarebbe morto, a meno che lui non la smettesse ... di fare che cosa? Di attraversare il suo terreno? Di deviare la sua acqua? Di qualunque cosa si trattasse, il contadino le rise in faccia e, il giorno dopo, la giovenca morì. Naturalmente, io ho sempre propeso per la seconda versione, quella causale. Da piccolo avevo una paura terribile di zia Rinn: ero quasi sicuro che sarebbe bastato un suo sguardo per trasformarmi in un rospo, il giorno in cui avesse deciso che meritavo di diventare tale.
Per meglio capire il mio terrore di bambino, bisogna sapere che zia Rinn era una donna piccola di statura, magra e gobba: aveva una gran massa di capelli bianchi, che teneva morbidamente legati con una sciarpa e indossava perennemente non meglio identificati abiti da campagna: vestiti da lavoro, su cui spesso portava incredibili cappotti, perché, almeno un paio di volte al giorno, doveva scendere fino ai piedi della collina, dove, in un'enorme struttura simile ad un granaio, allevava le galline, per poi venderne le uova alla Cooperativa del paese. La terra che circondava la sua casa non era adatta ad essere coltivata: era troppo collinosa e boscosa. Se il suo fidanzato fosse riuscito a raggiungerla, probabilmente avrebbe fatto una grama vita e, forse, quando lei gli parlava, gli diceva che stava meglio dov'era, anziché lì, su quella collina, a cercare di farci crescere il granoturco o l'erba medica.
Con me, lei aveva parlato sempre e soltanto di Alison, che non le piaceva. (Ma erano ben pochi gli adulti a cui mia cugina andava a genio.)
A sei minuti di macchina dalla stradina che conduce alla vecchia casa della zia - che rimane isolata rispetto alla strada della valle, che subito dopo aver superato l'unico negozio della zona, piega bruscamente verso destra, descrivendo un angolo acuto - si trovava il mio secondo punto di riferimento. Parcheggiai la Volkswagen nella lurida area di sosta davanti ad Andy's e andai sul retro dello stabile per darvi un'altra occhiata. Comica e triste com'era sempre stata, con le finestre adesso rotte e le assi di legno tutte sconnesse, era assediata da erbacce filamentose e, sul lato posteriore, dall'erba alta di un campo abbandonato. Mi rendo conto solo ora che entrambi quei miei punti di riferimento, il cui ricordo era così vivido nella mia mente, erano legati a tristi vicende matrimoniali, a vite domate e modificate da delusioni sessuali. E, per di più, intorno ad entrambi aleggiava qualcosa di strano, sì, qualcosa di decisamente peculiare. Ero sicuro che negli ultimi quindici anni, la mostruosa casetta di Duane avesse acquisito fra i bambini della valle la fama di essere infestata dai fantasmi.
Era la casa che mio cugino Duane aveva costruito ("non da solo, ma con una mano sola", come amava dire sarcasticamente mio padre) per il suo primo amore, una ragazza polacca di Arden che mia nonna detestava. In quegli anni, i contadini norvegesi e la gente polacca di città non amavano mescolarsi fra di loro. "La casa dei sogni di Duane", l'avevano battezzata i miei genitori, ma la chiamavano così soltanto quando parlavano fra di loro, perché i miei zii facevano finta che fosse perfetta e se ne avevano molto a male quando qualcuno vi accennava con intenzioni derisorie. Duane aveva meditato a lungo sul progetto del suo futuro nido, ma evidentemente, senza grande profitto, perché la villetta che aveva amorevolmente costruito per la sua fidanzata aveva le dimensioni di un piccolo granaio, o, se vogliamo, di una grande casa per le bambole, visto che vi sarebbe potuta entrare, al massimo, una persona alta un metro e sessanta. Era articolata su due piani e aveva quattro minuscole stanze tutte uguali, come se Duane si fosse dimenticato che, in una casa, ci si deve cucinare, mangiare e cacare. In ogni caso, adesso, quella strana costruzione pendeva decisamente verso destra, come se le travi di legno si stessero stiracchiando e prometteva la medesima affidabilità di una casa di paglia.
Proprio come il suo fidanzamento. La ragazza polacca aveva risposto in pieno alle più pessimistiche aspettative di mia nonna, che non nutriva grande stima per chi non lavorava con le mani, e alla fine era scappata insieme ad un meccanico di Arden: "Un altro polacco buono a nulla, che non usa il cervello che il buon Dio gli ha dato", come disse mia nonna a mia madre. «Quando Einar vendeva cavalli - tuo nonno Miles era un grande commerciante di cavalli qui nella valle quando ancora quasi nessuno sapeva come fosse fatto un cavallo - capitava che ne prendesse con sé due o tre e rimanesse via per parecchi giorni di seguito, e ricordo che ogni volta, prima di partire, diceva che la sola cosa che un polacco di Arden sapeva sui cavalli era che doveva guardargli i denti. E il bello, aggiungeva, era che non solo non sapeva dove andarli a cercare, ma che quando li trovava non sapeva che cosa guardare. Quella ragazza per cui Duane ha perso la testa è come tutti gli altri della sua razza: disposta ad affrontare la dannazione eterna solo perché un ragazzo ha una bella macchina.»
Non aveva nemmeno visto la casa che lui aveva appena finito di costruire per lei. Da come mi è stata raccontata la storia, sembra che Duane volesse che lei vedesse la casa solo quando lui ve l'avrebbe accompagnata al termine della cerimonia nuziale. Che una sera lei fosse venuta a darci un'occhiata insieme al suo meccanico e che poi avesse deciso di filarsela? La settimana prima del Natale del 1955, Duane era andato ad Arden a trovarla e aveva trovato i suoi genitori in lacrime e stranamente ostili nei suoi confronti. Solo dopo molto insistenze, venne a sapere che la sera prima la loro figlia non era tornata a casa e che loro incolpavano lui, che era luterano, norvegese e per giunta contadino, della sua scomparsa. Allora Duane era corso nella sua stanza e aveva scoperto che erano spariti tutti i suoi vestiti e le sue cose più care. Da lì si era precipitato all'emporio dove la ragazza lavorava e aveva appreso dal proprietario che il giorno prima, si era licenziata. Dal negozio andò alla stazione di servizio per parlare con il meccanico, della cui esistenza, non era nemmeno certo. Anche lui era scomparso: «È scappato ieri sera con quella nuova Stude» gli aveva detto il padrone. «Immagino che se la sia svignata insieme alla tua ragazza.»
Come il protagonista di una parodia di un romanzo gotico, Duane non aveva mai più menzionato la fanciulla, né era mai più stato a vedere la sua terribile casa. Faceva finta che non ci fosse mai stato alcun fidanzamento e nessuno toccò più l'argomento in sua presenza. Quattro anni dopo, conobbe un'altra ragazza, la figlia di un contadino della valle vicina. La sposò e lei gli diede una figlia, ma anche quella storia finì male.
Adesso, quell'assurda costruzione si era minacciosamente inclinata su di un lato, come se, nel passarle vicino, un gigante frettoloso l'avesse urtata. Persino le intelaiature delle finestre erano diventate trapezoidali. Attraversai lo spiazzo polveroso e ricoperto di erbacce e diedi una sbirciatina all'interno, attraverso le due finestre che davano sul retro di Andy's. La stanza era, per dirla chiaramente, un troiaio. La quintessenza della desolazione. Le assi di legno si erano deformate ed erano marcite, cosicché dal pavimento, ricoperto di escrementi di uccelli, spuntavano, qua e là piante di malaerba: in breve, sembrava una bara sudicia e vuota. In un angolo c'erano alcune coperte aggrovigliate e tutt'intorno un semicerchio di mozziconi di sigaretta. Sui muri intravvidi alcuni scarabocchi fatti con il pennarello. La vista di quel folle parto della mente di mio cugino mi deprimette a tal punto che decisi di andarmene, ma quando mi voltai per raggiungere la macchina, inciampai con il piede sinistro in un fitto intrico di erbacce. Era come se quella casa malefica e deforme avesse cercato di afferrarmi e, d'istinto, tirai un calcio con tutta la forza che avevo. Una spina mi si conficcò nella caviglia con la decisione di una vespa. Imprecando, mi allontanai dalla casupola di Duane e mi diressi verso il negozio.
Andy's, che costituiva il mio terzo punto di riferimento, era un luogo molto più confortevole e, soprattutto, molto più normale. Quando andavamo a trovare la nonna, la sosta da Andy's era di prammatica prima di proseguire alla volta della fattoria; e, ogni volta, invariabilmente, caricavamo la macchina di bottiglie del Dr. Pepper per me e compravamo una cassa di birra per mio padre e per lo zio Gilbert, il padre di Duane. Per la gente del posto, Andy's era sinonimo di emporio, un posto dove si poteva trovare di tutto: camicie e pantaloni da lavoro, manici e lame per le asce, cibo, orologi, saponi, stivali, coperte, giornali, giocattoli, valige, trapani e punzoni, cibo per cani, carta, zappe e rastrelli, cibo per polli, taniche di benzina, torce elettriche, pane ... il tutto impacchettato, allineato e impilato all'interno di un lungo edificio di legno bianco eretto su spesse palafitte di mattoni. Prima, al suo posto, sorgeva un distributore di benzina, con tre pompe, anch'esse bianche. Raggiunsi gli scalini e spingendo la porta a zanzariera entrai nella fresca oscurità del negozio.
Vi regnava lo stesso odore di vent'anni prima, un odore composito, in cui confluivano i profumi degli ultimi arrivi. Sentendo sbattere la porta, la moglie di Andy (non ne ricordavo il nome), che stava leggendo una rivista seduta dietro il bancone, alzò gli occhi e mi squadrò. Poi aggrottò le sopracciglia e ritornò al suo giornale. Ma non appena cominciai a farmi strada fra gli scaffali, la vidi voltare la testa e mormorare qualcosa verso il retro del negozio. Era una donna piccola di statura, con i capelli scuri e un modo di fare aggressivo e, invecchiando, si era rinsecchita e ulteriormente indurita. Quando si girò di nuovo verso di me e mi guardò con sospetto, mi ricordai che non eravamo mai andati d'accordo e che, peraltro, io le avevo dato un buon motivo per non piacerle. Tuttavia, non pensavo che mi avesse riconosciuto: sono molto cambiato di viso rispetto a quando ero un ragazzino. L'atmosfera non era quella giusta e lo sapevo; la mia euforia di poco prima era svanita, lasciandomi piuttosto abbacchiato e avrei fatto meglio a fare dietro-front e ad andarmene all'istante.
«Posso aiutarla, signore?» mi chiese con la tipica cadenza di quella valle, che, per la prima volta, mi risuonò ostile ed estranea.
«C'è Andy?» le domandai a mia volta avvicinandomi al bancone e all'odore confuso dei nuovi arrivi.
Senza dire una parola, lei si alzò e scomparve nel retro cavernoso dell'emporio. Udii una porta chiudersi e poi riaprirsi. Un attimo dopo arrivò Andy. Era ingrassato e aveva perso i capelli; solo la sua faccia, piccola e rotonda, conservava la medesima mancanza di caratterizzazione sessuale di quando era giovane e l'aria perennemente preoccupata. Quando raggiunse il bancone vi si appoggiò, facendo rientrare la pancia.
«Che cosa posso fare per lei?» mi chiese, con voce gentile, che contrastava con l'espressione frustrata e sospettosa del suo viso di valligiano. Mi accorsi che i suoi radi capelli erano quasi tutti bianchi. «Lei non è un commesso viaggiatore, o un rappresentante come si fanno chiamare adesso.»
«Ero passato solo per salutare» dissi io. «Anni fa, venivo spesso qui con i miei genitori. Sono il figlio di Eve Updhal» aggiunsi specificandogli il nome di mia madre per aiutarlo a localizzarmi nella vallata.
Mi guardò con durezza, poi annuì e disse: «Miles. Sì, tu devi essere Miles. Ti trattieni o sei qui solo di passaggio?» Andy, come sua moglie, si ricordava dei miei piccoli peccati di venti anni prima.
«Sono venuto qui per lavorare» gli risposi. «Ho pensato che alla fattoria avrei avuto tutta la tranquillità di cui avevo bisogno per concentrarmi.» Una spiegazione quando avevo deciso di non darne nessuna: l'atteggiamento di Andy mi induceva a mettermi sulla difensiva.
«Non mi sembra di ricordare quale lavoro tu abbia poi finito per fare.»
«Insegno all'università» gli risposi e il demone della rabbia mi fece gioire della sua espressione di sorpresa. «Inglese.»
«Be' si vedeva anche da piccolo che eri intelligente» commentò. «Nostra figlia, invece, studia stenografia e dattilografia all'istituto commerciale di Winona. Immagino che tu non insegni da queste parti.»
Gli dissi il nome della mia università.
«Lassù sulla East Coast?»
«È a Long Island.»
«Lo diceva sempre Eve che aveva paura che un giorno saresti finito sulla costa orientale. Allora, di che lavoro si tratta?»
«Devo scrivere un libro. O meglio sto scrivendo un libro. Su D.H. Lawrence.»
«Cioè, in parole povere?»
«Quello che ha scritto L'Amante di Lady Chatterly», gli spiegai.
Andy fece roteare le pupille in un modo sorprendentemente malizioso e anche un po' femmineo. Sembrava che fosse sul punto di leccarsi le labbra. «Immagino che sia vero quello che dicono delle università dell'Est, no?» Ma quell'osservazione non era un invito ad una confidenza fra uomini, come poteva sembrare: vi era una nota di subdola malignità nella sua voce.
«Questo è solo uno dei libri che ha scritto» precisai io. Andy mi rispose con il medesimo ammiccamento malizioso di prima.
«Penso che a me basti un Libro.» Si voltò di lato e seguendo il suo sguardo vidi sua moglie nascosta nel retro che mi fissava. «È Miles, il figlio di Eve» le urlò. «Non l'avevo nemmeno riconosciuto. Dice che sta scrivendo un libro sconcio.»
La moglie di Andy si avvicinò. Era accesa in volto. «Abbiamo saputo che tu e tua moglie avete divorziato. Ce l'ha detto Duane.»
«Eravamo separati» dissi io severamente. «Adesso è morta.»
Entrambi mostrarono di essere sorpresi. «Non ce l'aveva detto nessuno» spiegò la moglie di Andy. «Volevi qualcosa?»
«Sì, penso che prenderò una cassa di birra per Duane. Quale beve di solito?»
«Gli basta che sia birra e gli va bene tutto» mi informò Andy. «Blatz, Schiltz o Old Milwaukee? Penso di avere anche della Bud da qualche parte.»
«Una qualsiasi» gli risposi e lui si avviò goffamente verso il retro, dove teneva le scorte.
Sua moglie ed io ci guardammo con grande imbarazzo. Fu lei a distogliere lo sguardo per prima. Abbassò gli occhi sul pavimento, poi guardò lo spiazzo dove avevo parcheggiato la macchina. «E ti sei tenuto lontano dai guai?»
«Sì, certo.»
«Però Andy dice che scrivi cose sconce.»
«Ha capito male. Io sono venuto qui per scrivere una dissertazione.»
Lei si inalberò. «Vuoi dire che Andy è troppo stupido per capire quello che dici? Tu ti sei sempre sentito superiore a noi altri di qui, non è vero? Hai sempre pensato di essere superiore alla gente comune, così superiore da non dover nemmeno rispettare la legge.»
«Ehi, aspetti un momento. Ma Cristo, è accaduto un sacco di tempo fa.»
«E ti senti tanto superiore da permetterti di nominare il nome di Dio invano. Non sei affatto cambiato, Miles. Lo sa Duane che venivi qui?»
«Certo che lo sa. Non sia così cattiva. Senta, mi dispiace. Ho guidato per due giorni di fila e mi sono capitati alcuni fatti strani.» Vidi che guardava la mia mano avvolta nel fazzoletto. «Tutto quello che voglio è un po' di pace e di tranquillità.»
«Tu hai sempre portato guai, Miles» replicò lei con durezza. «In questo tu e tua cugina Alison eravate davvero uguali. Sono contenta che nessuno di voi due sia cresciuto nella valle. I tuoi nonni erano dei nostri e abbiamo sempre trattato tuo padre come uno di noi, ma adesso penso che abbiamo già abbastanza problemi senza avere anche te qui tra i piedi.»
«Ma santo cielo», protestai io. «Dov'è andata a finire la vostra ospitalità?»
Lei mi lanciò un'occhiata di fuoco. «Tu qui non sei più il benvenuto dalla prima volta che rubasti. Dirò ad Andy di portarti la birra alla macchina. Puoi lasciare i soldi sul banco.»
Dalla Deposizione di Margaret Kastad:
16 luglio
Ho capito che era Miles Teagarden nel momento stesso in cui ha messo piede nel negozio, anche se Andy sostiene di averlo riconosciuto soltanto quando gli ha detto di essere il figlio di Eve. Aveva lo stesso sguardo che aveva da piccolo, come se nascondesse qualche brutto segreto. Ho sempre provato dispiacere per Eve, che è stata onesta tutta la vita, povera donna, ma io penso che uno non può sapere come verranno su i suoi figli quando li cresce in posti strani. In ogni caso, non è colpa sua se Miles è quello che è. Sono solo contenta che se ne sia andata prima di vedere quel che è diventato. Quel giorno l'ho sbattuto fuori dal negozio. Gli ho detto, Miles, tu qui non la racconti a nessuno. Noi ti conosciamo. Per cui vattene fuori dal mio negozio. Andy ti porterà la birra alla macchina. Ho capito che doveva aver attaccato briga con qualcuno: era debole e spaventato e aveva ancora una mano che gli sanguinava. Così gli ho detto e se tornassi indietro glielo direi ancora. Non è mai stato buono a nulla, nonostante tutta quell'intelligenza che dicevano avesse. E soltanto malato. Sì malato. Se fosse stato un cane o un cavallo l'avrebbero rinchiuso da qualche parte o l'avrebbero abbattuto. Senza pensarci due volte. Lui e quel suo sguardo sfuggente e quel fazzoletto intorno alla mano.
Guardai in silenzio Andy mentre caricava la cassetta di birra sul sedile posteriore della Volkswagen, spingendola accanto ai miei scatoloni pieni di libri e di appunti. «Ti sei fatto male alla mano, eh? Mia moglie ha detto che hai già pagato. Bene, porta i miei saluti a Duane e auguri per la tua zampa.» Si allontanò dalla macchina strofinandosi le mani sui pantaloni, come se se le fosse sporcate. Io mi sedetti dietro il volante senza parlare. «Ci vediamo» mi disse lui. Io lo guardai e poi uscii da quel parcheggio polveroso. Quando alzai gli occhi sullo specchietto retrovisore vidi che stava scrollando le spalle.
Non appena la curva della strada, una curva a gomito, in corrispondenza di una rupe rossa di pietra arenaria, lo escluse dalla mia visuale, accesi la radio, sperando di trovare un po' di musica; invece sentii di nuovo la voce cupa di Michael Moose che commemorava la morte di Gwen Olson e allora, con un moto di impazienza, la spensi.
Quando fui all'altezza della vecchia scuola in cui mia nonna aveva insegnato, accostai e cercai di rilassarmi. Esiste una particolare sensazione mentale che corrisponde alla produzione di onde alfa da parte del cervello e io mi concentrai nel tentativo di evocarla. Ma senza successo, e tutto quello che ottenni fu di rimanere seduto in macchina a fissare, alternativamente, la strada, il campo di granoturco alla mia destra e la scuola. Ad un tratto udii il ronzio di una motocicletta e, poco dopo, la vidi sfrecciare sulla strada nella direzione opposta alla mia: dapprima sotto forma di un puntolino nero che ricordava una mosca cavallina, poi sempre più grande, fino a quando riuscii a distinguere nettamente il giubbotto scuro e il casco del guidatore e, dietro di lui, una ragazza bionda, con i capelli che svolazzavano nel vento e le cosce robuste strette contro quelle del ragazzo. Giù, alla grande curva, il rumore del motore mutò poi, a poco a poco, si spense.
Perché uno deve sempre portarsi scritto in fronte l'elenco dei peccati che ha commesso? Perché gli altri possano leggerlo ad alta voce? Era stupido e ingiusto. Quella era l'ultima volta che Andy mi vedeva. Anche a costo di sobbarcarmi ogni volta dieci miglia di macchina, sarei andato ad Arden a fare la spesa. Quella decisione mi aiutò a scacciare il malumore e dopo un paio di minuti di ulteriore riflessione, mi sembrò di aver riacquistato un po' di tranquillità.
Forse vi chiederete: dov'è finito il clown, dov'è finito il burlone refrattario che ho dichiarato di essere? La mia causticità mi sorprese. Una donna come la moglie di Andy avrebbe considerato scandaloso usare la parola "cagna" in un contesto che esulasse da quello canino. Era stata una mattinata densa di emozioni. I miei vecchi furti! Del resto immagino che fosse pretendere troppo aspettarsi che se ne fossero dimenticati.
Un centinaio di metri dopo la ex scuola, c'è la chiesa. La chiesa luterana di Getsemani è una costruzione di mattoni dall'aria solida, pomposa e pacifica, probabilmente dovuta alle colonne palladiane che si ergono in cima ai gradini. Per amore di mia nonna, che era già molto debole, Joan ed io c'eravamo sposati in quella chiesa (era stata un'idea di mia madre).
Subito dopo la chiesa, la terra sembra aprirsi e il granoturco prende il sopravvento. Oltrepassai la fattoria dei Sunderson - due carri con rimorchio parcheggiati sul prato in forte pendio, un gallo che avanzava con sussiego sulla terra rossa del vialetto d'accesso - proprio nel momento in cui un uomo tarchiato, vestito in uniforme, stava uscendo dal portone. Mi fissò e alla fine decise di salutarmi, ma io non avevo ancora generato sufficienti onde alfa da rispondere al suo gesto.
Dopo aver percorso ancora mezzo miglio, vidi, in lontananza, la fattoria di mia nonna e la terra degli Updahl. I noci che costeggiavano il prato si erano notevolmente irrobustiti e adesso assomigliavano ad una fila di vecchi contadini che sfidavano i raggi cocenti del sole. Raggiunta la parte anteriore della proprietà, piegai nel viale d'accesso, oltrepassando il filare di alberi. La macchina sobbalzò sulla stradina sconnessa. Credevo che il mio cuore si sarebbe messo a battere all'impazzata alla vista della vecchia casa bianca e rimasi vivamente stupito quando mi accorsi di non provare alcuna emozione. Era una casa a due piani con la veranda: insomma, una normalissima fattoria. Sceso dall'auto, fui immediatamente investito dai vecchi odori della mia fanciullezza: l'odore ricco e composito delle mucche e dei cavalli, del concime, del latte e del sole. Quell'odore permeava ogni cosa; quando alcuni nostri parenti, che abitavano alla fattoria, erano venuti a trovarci a Fort Lauderdale, gliel'avevo sentito addosso: l'avevo percepito nei loro vestiti, nelle loro mani, nelle loro scarpe. Respirare di nuovo quell'aria mi fece sentire, per un istante, come se avessi avuto tredici anni, e alzai la testa e stirai il collo e la schiena. Ad un tratto vidi una grande sagoma attraversare la veranda: dalla camminata goffa e dinoccolata capii che doveva trattarsi di Duane. Era chiaro che era rimasto seduto in qualche angolo nascosto della veranda fino a quel momento, proprio come quella terribile notte di venti anni prima. Quando mi venne incontro, cercai di sorridergli. Nel rivederlo, ripensai istintivamente all'ostilità che ci aveva sempre diviso, a quanto poco ci fossimo sempre piaciuti. Ma adesso sarebbe stato diverso, o almeno così speravo.
CAPITOLO SECONDO
«Ho qui una cassa di birra, Duane» dissi, cercando di dimostrargli una sincera amicizia.
Lui mi guardò perplesso - gli si leggeva la perplessità stampata su tutto il suo faccione semplice - ma poiché mi aveva già teso meccanicamente la mano, completò il movimento e mi salutò. Aveva le mani enormi, vere mani da contadino, e così ruvide che sembravano fatte di una sostanza meno vulnerabile della pelle. Duane era piuttosto basso e grassoccio, ma aveva le estremità di un uomo alto un paio di spanne più di lui. Mentre mi stringeva la mano e mi ammiccava con un mezzo sorriso, cercando di interpretare il mio accenno alla birra, io mi accorsi che doveva essere rientrato da poco dai campi: indossava una tuta piena di macchie e un paio di stivali incrostati di fango e di escrementi. Emanava tutti i famigliari odori della fattoria, uniti a quello del sudore e a quello suo proprio, il suo odore interno, che era quello della polvere da sparo.
Finalmente, dopo un po' mi lasciò andare la mano. «Hai fatto buon viaggio?»
«Sì, grazie. Dopo tutto l'America non è così grande come sembra. La gente continua ad attraversarla da un capo all'altro tutti i giorni.» Le abitudini sono proprio dure a morire: benché Duane avesse quasi dieci anni più di me, io assumevo sempre quel tono di superiorità con lui.
«Sono contento che tu abbia fatto buon viaggio. Sono rimasto molto sorpreso quando mi hai detto che ti sarebbe piaciuto tornare di nuovo qui.»
«Pensavi che mi fossi adeguato a quegli snob della East Coast?» Aggrottò le sopracciglia alla parola snob, di cui non era sicuro di conoscere il significato. Era la seconda volta che lo prendevo in contropiede. «Ero solo un po' sorpreso, tutto qui» mi disse. «Senti, Miles, mi è molto dispiaciuto per tua moglie. Forse sentivi il bisogno di cambiare aria per un po'?»
«Sì, è proprio così. Senti, Duane, non avrai mica interrotto il tuo lavoro per venirmi ad accogliere, spero?»
«Be' non volevo che arrivassi e che non trovassi nessuno in casa. Mia figlia è fuori da qualche parte. Lo sai come sono i ragazzi, non ci puoi mai fare affidamento. Così ho pensato di fare una capatina verso l'ora di pranzo per salutarti. Per darti il benvenuto. E poi pensavo che avrei potuto ascoltare un po' la radio, per sentire se ci fossero novità su quella tragedia. Mia figlia conosceva quella Gwen Olson.»
«Mi dai una mano a portar dentro le mie cose?» gli chiesi io.
«Come? Ah, certamente.» Si chinò sul sedile posteriore e prese due pesanti scatoloni pieni di libri e scartoffie. Quando si raddrizzò, mi chiese: «La birra è per me?»
«Spero che sia la marca giusta.»
«È birra, no?» mi rispose sorridendo. «Appena abbiamo portato dentro i tuoi bagagli, vado a metterla in fresco.» Poi, prima che ci avviassimo verso la veranda, Duane girò la testa e mi fissò con un'espressione sorprendentemente imbarazzata. «Senti, Miles, forse non avrei dovuto dire niente a proposito di tua moglie, perché l'ho vista soltanto una volta.»
«Tranquillo, Duane, non ti preoccupare.»
«No, io dovrei essere l'ultimo a dire qualcosa sui guai sentimentali degli altri.»
Si riferiva, naturalmente, al suo fallimento matrimoniale, ma quella frase sottintendeva anche qualcosa d'altro. Duane guardava le donne con sospetto: apparteneva a quella categoria di uomini, perfettamente normali dal punto di vista sessuale, che però si sentono a proprio agio solo in compagnia di altri uomini. Penso che nutrisse una viscerale avversione per il sesso femminile. Per lui le donne avevano rappresentato essenzialmente una fonte di dolore, con la sola eccezione di sua madre e di sua nonna (per sua figlia, in quel momento, non potevo parlare).
Dopo la sua prima delusione amorosa, aveva sposato la figlia di un fattore della French Valley, che era morta nel dare alla luce la loro bambina. Alla prima cocente umiliazione da parte della ragazza polacca (che neppure l'evidente soddisfazione con cui la nonna aveva accolto la fine del loro fidanzamento l'aveva aiutato a superare), aveva fatto seguito un periodo di avventure amorose disimpegnate, durato quattro anni, durante i quali in tutti i bar di Arden si scherzava sulla sua vita sentimentale; quindi c'erano stati gli undici mesi di matrimonio, dopodiché Duane aveva trascorso il resto della sua vita privo di una compagnia femminile adulta. Nel suo atteggiamento di sospetto nei confronti delle donne io intuivo una sostanziale componente d'odio. Tutte le donne che lui aveva conosciuto si erano dapprima dimostrate disponibili e poi si erano bruscamente dileguate portando via con sé il loro misterioso segreto sessuale. Ricordo che all'epoca della sua infelice storia d'amore con la ragazza polacca, avevo spesso avuto la sensazione che per Alison Greening lui provasse qualcosa di più oscuro di un semplice desiderio fisico. Penso che la odiasse, che la odiasse perché lei prima lo eccitava e poi rideva del suo desiderio: non lo reputava degno di essere preso in considerazione; lo giudicava un essere ridicolo.
Naturalmente, Duane aveva un fisico ben dotato e immagino che a volte il celibato sia stato un tormento per lui; al tempo stesso, però, temo che lui fosse il genere d'uomo che si turba profondamente di fronte alle proprie fantasie e che si sente a proprio agio con le donne solo quando sa che sono sposate. Aveva soffocato la propria sessualità tuffandosi a capofitto nel lavoro, e negli anni questo atteggiamento si era così consolidato che lui si aspettava che anche gli altri uomini facessero la stessa cosa: l'abitudine si era trasformata in principio, e per di più lui poteva vantare il successo che aveva conseguito a giustificazione della sua scelta. Duane aveva acquistato i duecento acri di terreno confinante con la sua proprietà e adesso possedeva la quantità massima di terra che un uomo possa riuscire a coltivare da solo, lavorando dieci ore al giorno: quasi a dimostrazione dell'ineluttabilità della legge della fisica secondo cui ad una azione corrisponde un'uguale reazione, l'astinenza sessuale aveva fatto lievitare il suo conto in banca.
Ebbi l'immediata riprova della sua prosperità quando trasportammo le mie casse e le mie valige nella vecchia fattoria. «Santo cielo, Duane», gli dissi. «Hai cambiato tutto l'arredamento! » Al posto dei sobri mobili in legno della nonna, e del suo vecchio divano consunto, la stanza in cui eravamo entrati ospitava quello che immagino si possa definire un soggiorno anni cinquanta: sedie pesantemente decorate con divano in stile, un tavolino di legno chiaro, lampade da tavolo rigorosamente funzionali al posto di quelle a kerosene e, per finire, riproduzioni incorniciate di mediocri dipinti. Nell'atmosfera della vecchia casa, quei mobili non meglio identificati erano decisamente fuori luogo. In poche parole, l'effetto che producevano sull'austero salotto della fattoria era quello di farlo assomigliare alla camera da letto di un motel. Ma mi ricordavano anche qualcos'altro, che però non colsi subito.
«Immagino che tu pensi che sia assurdo comprare mobili nuovi per una casa vuota. Il fatto è che mi capita di ospitarci più persone di quanto tu possa credere. Ad aprile sono venuti George e Ethel, in maggio Nella, da St. Paul e ...» Mi sciorinò il lungo elenco dei vari cugini, con rispettiva prole, che erano venuti a trascorrere una settimana o più alla fattoria. «A volte, questo posto si trasforma in un vero e proprio albergo. Immagino che essendo adesso tutta gente di città, desideri mostrare ai figli com'è fatta la campagna.»
Mentre parlavamo, notai le vecchie foto di noi nipoti, appese al muro come quando venivamo a trovare la nonna. Li conoscevo tutti: riconobbi una foto di me a nove anni, con un ciuffo ribelle che sembrava cotonato; poi una di Duane a quindici anni, che fissava la macchina fotografica con sguardo torvo, come se temesse che l'apparecchio fosse in procinto di dirgli qualcosa di spiacevole. Sotto questa, c'era un ritratto di Alison, di cui percepivo l'attrazione incandescente, ma che non ebbi il coraggio di guardare direttamente. Temevo che la vista del suo viso, bellissimo e selvaggio, mi avrebbe tolto il respiro. Fu allora che mi accorsi che la casa era perfettamente linda.
«Comunque» stava dicendo Duane,«ad Arden c'era un grande negozio di mobili per l'ufficio che liquidava e così ho preso la palla al balzo e ho deciso di risistemare la casa. Sono andato giù con il camion e ho portato su tutta questa roba.»
Ecco cos'era che mi aveva colpito, ma che, di primo acchito non ero riuscito a mettere a fuoco: quella stanza sembrava un ufficio di una ditta male in arnese.
«Mi piace così moderno il salotto» proseguì Duane forse un po' sulle difensive. «E mi è costato meno di un disco di seconda mano.» Mi lanciò un'occhiata, poi aggiunse: «Sembra che sia piaciuto a tutti.»
«Anch'io lo trovo bellissimo» dissi, distratto dall'ardore e dai sussulti della fotografia di Alison. Conoscevo bene quella foto. Era stata scattata a Los Angeles, quando Alison aveva circa nove anni, prima che i suoi genitori divorziassero e che lei e sua madre andassero a vivere a San Francisco. Era un primo piano del suo viso. Anche da bambina, Alison aveva un volto splendido, complesso, magico e in quella foto fattale dal padre esprimeva tutta la sua bellezza e le sue magiche complessità. Fissava la macchina come se conoscesse tutto e abbracciasse tutto. Il pensiero di quell'espressione travolgente sul suo viso di bimba, mi fece formicolare lo stomaco e, per impormi di non guardarla, dissi: «Mi sarebbe piaciuto che tu avessi preso anche una scrivania già che c'eri. Avrei proprio bisogno di un tavolo su cui lavorare.»
«Non c'è problema» mi rassicurò Duane. «In cantina c'è il pannello di una vecchia porta e un paio di cavalietti su cui potrai appoggiarlo.»
«Perfetto» dissi io voltandomi verso di lui. «Sei un ottimo anfitrione, Duane, e la tua casa è davvero molto in ordine. Complimenti.»
«Ti ricordi della signora Sunderson? Tuta Sunderson, quella che abita in fondo alla strada. Suo marito è morto un paio di anni fa e adesso lei vive con suo figlio Red e sua moglie. Red è un bravo agricoltore, quasi quanto lo era Jerome. Comunque, ho parlato con lei e lei ha detto che è disposta a fare un salto tutti i giorni per farti da mangiare e per tenerti pulito. È stata qui anche ieri.» Tacque per un po', ma era chiaro che aveva ancora qualcosa da aggiungere. «Ha detto che vuole cinque dollari alla settimana, escluso il cibo che dovrai comprarti da solo. Da quando le è venuta la cataratta non può più guidare. Per te va bene?»Gli dissi di sì. «Però preferirei fare sette dollari, anziché cinque, altrimenti mi sembrerebbe di approfittare di lei.»
«Come vuoi tu. Tuta comunque ha detto cinque e, probabilmente, vedendola ti ricorderai di lei. Dai, andiamo a mettere in fresco la birra.» E battendo le mani, si avviò verso la macchina.
Lo seguii sul prato, sotto il sole cocente, nell'aria che sapeva di tutti gli odori della campagna. Fuori, il suo odore di polvere da sparo era più intenso e, per non sentirlo, mi allungai per primo all'interno della Volkswagen e tirai fuori la cassetta di birra. Duane arrancò accanto a me lungo il sentiero che, superata la rimessa, il granaio e, dopo un bel tratto, la sua casa di legno bianca, conduceva alla cisterna accanto alla stalla.
«Nella tua lettera mi dicevi che stai scrivendo un libro.»
«Sì, è la mia dissertazione.»
«Su che cos'è?»
«Su uno scrittore inglese.»
«Ha scritto molto?»
«Oh sì, molto», dissi io ridendo. «Anche troppo!»
Anche Duane rise. «Come mai hai scelto proprio lui?»
«È una lunga storia. Immagino che sarò molto preso nei prossimi giorni, ma c'è ancora qualcuno che conosco qui in giro?»
Ci pensò sopra mentre procedevamo oltre la cicatrice scura dove un tempo sorgeva il chiosco. «Lo conoscevi, vero, Orso Polare Hovre? Adesso è il Capo della Polizia di Arden.»
Poco ci mancò che mi scivolasse la cassetta di birra dalle mani. «Quello scapestrato di Orso Polare? Ma tu pensa! Quando io avevo dieci anni e lui diciassette, salivamo sul coro della chiesa di Getsemani e ci divertivamo a lanciare palline di carta inzuppate di saliva sulla testa dei poveri parrocchiani!»
«Be', adesso ha messo la testa a posto» disse Duane. «E fa bene il suo lavoro.»
«Dovrei proprio dargli un colpo di telefono. Una volta ce la spassavamo come dei matti insieme, anche se stava un po' troppo dietro ad Alison per i miei gusti.»
Duane mi lanciò un'occhiata strana, sbigottita, ma si limitò a dire: «A quanto ne so è parecchio impegnato in questo periodo.»
Mi ritornò alla mente un'altra figura del passato... il ragazzo più dolce e intelligente che avevo conosciuto ad Arden durante le mie mitiche vacanze estive. «E che fine ha fatto Paul Kant? È ancora da queste bande? Ho sempre pensato che un giorno sarebbe andato a fare l'università da qualche parte e che non sarebbe più tornato.»
«No, no, Paul è qui. Lavora ad Arden, in un grande magazzino. Zumgo, si chiama. Così almeno mi hanno detto.»
«Non posso crederci. Paul che lavora in un grande magazzino! Che cosa fa, il direttore?»
«Penso che ci lavori e basta. Non è riuscito a fare molta strada.» Duane mi guardò di nuovo, con un certo imbarazzo questa volta, e aggiunse:«Dicono che sia un po' strano.»
«Strano?» Non credevo alle mie orecchie.
«Così dicono, lo sai com'è la gente. In ogni caso non penso che nessuno avrà niente in contrario se lo chiami.»
«Sì, lo so com'è fatta la gente» risposi io ripensando alla moglie di Andy. «Ne hanno dette fin troppe su di me e c'è chi ancora continua a farlo.» Eravamo arrivati alla cisterna e io mi chinai sul bordo, coperto di muschio, per immergere le bottiglie nell'acqua verde.
Dalla Deposizione di Duane Updahl:
16 luglio
Certo, vi dirò tutto quello che volete sapere di Miles. Lo conosco molto bene. Già quand'era piccolo si vedeva che era fuori luogo qui, e quando l'ho visto, ho capito subito che anche questa volta sarebbe stato come un pesce fuor d'acqua. Si comportava in modo strano. Parlava come se c'avesse un granchio attaccato al culo, come quelli di città. Come se volesse prendermi in giro. Quando mi ha detto che gli sarebbe piaciuto rivedere Hovre, sono rimasto lì secco come un baccalà. (Risate) Ma mi pare che abbia ottenuto quello che desiderava, no? Stavamo portando alcune bottiglie di birra alla cisterna e a un certo punto, dopo aver accennato a Orso Polare, cioè Galen, mi ha detto che aveva intenzione di andare a trovare Kant (risate) e io gli ho risposto, prego accomodati. Dopodiché lui ha detto qualcosa, non so, sul fatto che la gente parlava di lui, o qualcosa del genere. Poi, per poco non ha fatto scoppiare quelle bottiglie di birra, sbattendole contro il fondo della cisterna. Ma quando ha cominciato a comportarsi in modo davvero strano, è stato quando è arrivata mia figlia.
Ad un certo punto, mentre stavo estraendo la mano dalla cisterna, il fazzoletto si impigliò nel tappo di una delle bottiglie e la stoffa bagnata scivolò via e andò a fondo. Quando la ferita, ancora aperta, venne in contatto diretto con l'acqua gelata, il dolore fu così lancinante che mi mancò il respiro. Il palmo mi si arrossò di rivoli di sangue contorti e io pensai subito agli squali.
«Un incontro ravvicinato con qualcosa a cui non piacevi troppo?» Duane si era insinuato fra me e il bordo della cisterna e fissava insistentemente la mia mano sanguinante immersa nell'acqua.
«È un po' difficile da spiegare.»
Estrassi l'arto e, chinandomi sopra la cisterna, lo premetti in un punto del bordo dove il muschio era alto quasi un centimetro. Il pizzicore e le pulsazioni diminuirono immediatamente, inibite dal contatto con una sostanza magica. Se fossi potuto restare lì tutto il giorno, con la mano premuta contro il muschio fresco e viscido, ogni secondo si sarebbero formati milioni di nuove cellule e la mia ferita si sarebbe rimarginata.
«Ti senti bene?» mi chiese Duane.
Stavo osservando la distesa dei suoi terreni: i campi di granoturco e di erba medica coltivati in fasce alterne lungo entrambe le sponde del ruscello, costeggiato da una fila di salici e di pioppi; più oltre il fianco arrotondato di una collina era equamente ripartito fra le due colture. Tanto il granoturco, quanto l'erba medica erano destinati all'insilamento (erano già anni che Duane aveva deciso di occuparsi soltanto di buoi da macello.) Al di sopra dei campi, iniziava il bosco, che si estendeva fino in fondo alla valle. Sembrava così perfetto da apparire irreale, come le foreste di Rousseau. Mi sarebbe piaciuto prendere una manciata di muschio, caricarmi una canadese in spalla e ritirarmi lassù, senza pensare all'insegnamento, al libro e a New York.
«Ti senti bene?»
Filtrando attraverso lo spesso strato di muschio il sangue stava lentamente colando nell'acqua. Io, però, continuavo a fissare il limite dei campi, dove incominciava il bosco. Mi sembrò di vedere una figura sottile sbucare momentaneamente dagli alberi, guardare verso di noi e poi scomparire di nuovo come una volpe. Forse era un ragazzo. Ma nel momento stesso in cui ne percepii distintamente la presenza, se n'era già andata.
«Ehi, Miles, tutto ok?» C'era una nota di impazienza nella voce di Duane.
«Sì, sì, certo, sto bene. Ci sono molti bambini che vanno a giocare in quei boschi lassù?»
«No. Il bosco è piuttosto fitto e non ci va quasi mai nessuno. Perché?»
«No, niente. Così, chiedevo. Niente di importante.»
«Ci vive qualche animale. Ma niente di buono da cacciare. A meno che uno non abbia un fucile capace di sparare attorno agli alberi.»
«Forse Andy ne ha qualcuno del genere.» Sollevai la mano dal muschio e la ferita ricominciò subito a pungere e a pulsare. Perché l'avevo privata del contatto con la sostanza magica.
Dalla Deposizione di Duane Updahl:
16 luglio
Aveva in mente qualcosa fin dall'inizio, qualcosa che lo dominava completamente, si può dire. Avreste dovuto vedere il modo in cui ha premuto la mano ferita sul muschio della cisterna. Avrei dovuto immaginare che stava accadendo qualcosa di strano lassù, in quei boschi, dal modo in cui lui li fissava e dalle strane domande che faceva.
Le sostanze magiche sono quelle che hanno un potere sacro, calmante e curativo. Quando Duane mi disse: «Vieni, andiamo a casa, così ti medico quella ferita», io lo sorpresi strappando una manciata di muschio e stringendola nella mano sanguinante. Serrai il pugno con forza e il dolore si attenuò lievemente.
«Una volta c'era una vecchia donna indiana che viveva da queste parti e che curava le malattie con le erbe» disse Duane guardando la poltiglia vischiosa che mi colava tra le dita. «Lo faceva anche Rinn. Ma c'è pericolo che con quella roba la tua ferita si infetti, perciò la puliremo con l'acqua prima di metterci la garza. Ma come te la sei procurata?»
«Oh, è solo la stupida conseguenza di uno scatto di nervi.»
Il muschio si era intriso di sangue ed era diventato molle e repellente da tenere in mano. Così lo lasciai cadere sull'erba e mi avviai verso la casa di Duane. Un cane che ansimava, sdraiato davanti a granaio fissò attentamente quella pallotta sanguinolenta.
«Hai fatto a botte con qualcuno?»
«No. Ho solo avuto un piccolo incidente.»
«Ti ricordi di quella volta che hai distrutto la macchina alle porte di Arden?»
«Non penso che potrò mai dimenticarlo. Per poco non ci ho rimesso le penne.»
«Non è stato dopo quella volta della...»
«Sì, sì» lo interruppi io. Non volevo che pronunciasse la parola "cava".
«Fu una cosa terribile, terribile. Ero proprio dietro di voi con il camion, ma quando voi avete girato a destra sulla 93, io sono andato dalla parte opposta verso Liberty. Ho fatto un giro, tanto per passare il tempo. Poi, dopo circa un'ora...»
«Okay, basta così.»
«Be', lo sai, stavo per...»
«Sì, lo so benissimo. Parliamo d'altro se non ti dispiace. Questa è una storia che appartiene al passato.» Il fatto che Duane avesse rivangato quella tragica vicenda mi aveva riempito d'angoscia e volevo costringerlo a chiudere il becco. Alcuni metri dietro di me, il cane cominciò a ringhiare e a uggiolare. Duane si chinò a raccogliere un sasso e lo scagliò contro l'animale; io continuai a camminare. Tenevo il braccio scostato dal busto, lasciando che il sangue mi colasse dalle dita e intanto immaginavo quella bestia bianca e nera che strisciava verso di me. Il colpo andò a segno, il cane guaì e corse via. Io mi voltai e vidi una traccia di gocce rosse sull'erba.
«Vai a trovare la zia Rinn, oggi?» Duane aveva raggiunto i gradini di cemento che conducevano alla sua abitazione e mi stava guardando con la testa leggermente reclinata all'indietro. «Le ho detto che saresti venuto e credo che abbia capito. Penso che voglia vederti.»
«Rinn?» gli domandai io incredulo. «Ma è ancora viva? Ero convinto che fosse morta anni fa.»
Duane sorrise, con quell'aria scettica di chi sa e che mi manda fuori dai gangheri. «Morta? Quella vecchia pazza? Niente potrebbe ucciderla.»
Salì le scale e io lo seguii all'interno della casa. La porta si apriva su un corridoio che immetteva nella cucina. Quest'ultima non appariva per nulla mutata rispetto a quando vi abitava lo zio Gilbert: linoleum decorato sul pavimento, il lungo tavolo di formica e la cucina economica di maiolica. Adesso, però, i muri sembravano giallastri e l'intera stanza aveva un'aria sudicia e trascurata, che dipendeva solo in parte dalle ditate di grasso sul frigorifero o dalla pila di piatti sporchi nell'acquaio. C'era polvere perfino sugli specchi. A guardarla veniva istintivamente da pensare che dietro i muri si nascondesse un esercito di formiche e di topi in attesa che si spegnessero le luci per poi venire a far baldoria.
Duane dovette accorgersi della mia espressione di sorpresa perché scrollò le spalle e disse: «È mia figlia che dovrebbe tenere in ordine la cucina, ma è meno affidabile di una bambina di due anni.»
«Immagino quello che direbbe tua madre se la vedesse.»
«Oh, io ci sono abituato», rispose lui ammiccando. «E poi non ci tengo così tanto alle usanze del passato.»
Pensavo che avesse torto. Io ci ho sempre tenuto al passato. Ho sempre pensato che potesse e dovesse ripetersi all'infinito, che rappresentasse l'afflato vitale del presente. Ma non potevo dire tutto questo a Duane. Così cambiai argomento: «Raccontami un po' di zia Rinn. Prima stavi forse cercando di dirmi che è sorda?» Mi avvicinai al lavello e ci tenni sopra la mano.
«Aspetta un attimo, vado a prendere garza e cerotto» disse lui, avviandosi goffamente verso il bagno. Quando tornò, mi prese la mano e la tenne per un po' sotto il getto freddo dell'acqua. «In realtà non ,è esatto dire che è sorda o che è cieca. Secondo me, vede e sente soltanto quello che vuole lei. Per cui tu non stare a ripetere le cose mille volte. Se vuole, sente e il suo cervello funziona benissimo: sa tutto quello che succede.»
«Ma si muove, va in giro?»
«È raro che esca di casa. In genere sono i suoi vicini che le fanno la spesa. Però ha sempre le sue galline, e ha affittato il suo campo a Oscar Johnstad. Immagino che le basti per tirare avanti. Però adesso che ha superato gli ottanta, non la vediamo più neanche in chiesa.»
Con mia grande sorpresa scoprii che Duane era un ottimo infermiere. Mentre parlavamo, mi aveva rapidamente asciugato la mano con un canovaccio, poi aveva premuto sopra la ferita un tampone di cotone e infine, partendo dal polso, aveva provveduto a fasciarmi saldamente l'arto. «Bene» disse mentre ultimava la sua opera d'arte. «Adesso ti trasformiamo in un perfetto contadino.»
In campagna, si sa, gli infortuni sono molto frequenti: braccia ingessate, teste bendate e arti amputati sono cose di ordinaria amministrazione, come pure i suicidi, l'instabilità mentale e la scontrosità di carattere. Per questi ultimi tre aspetti, ma non per i primi, la vita nelle fattorie ricorda da vicino quella delle comunità accademiche. È opinione comune che sia la campagna che l'università siano paradisi di serenità. Mentre io ero assorto in questi pensieri, Duane stava coprendo la benda con uno strato di cerotto che poi recise con l'unghia frastagliata e assicurò alla base della mano. Adesso sembravo proprio un contadino: un bell'auspicio per la conclusione del mio orribile libro.
Sì, perché era davvero orribile: un insulto allo spirito. Fu quando sentii le dita della mano sinistra che cominciavano a formicolare, segno evidente che Duane aveva stretto troppo la fasciatura, che mi resi conto di quanto detestassi scrivere saggi di critica letteraria e decisi che appena avessi finito la tesi e mi fossi assicurato il posto, non avrei mai più posto mano a simili lavori.
«Comunque» riprese Duane, «potresti telefonarle o fare un salto a salutarla.»
L'avrei fatto. Pensai che ci sarei potuto andare l'indomani, o il giorno dopo ancora, non appena mi fossi sistemato nella vecchia fattoria della nonna. La zia Rinn, ne ero convinto, era posseduta da qualche spirito, anzi era la personificazione dello spirito, proprio come la ragazza della foto, che mi pietrificava con lo sguardo. Sentii la porta aprirsi e chiudersi alle mie spalle.
«Alison» disse Duane con voce vagamente seccata, benché cercasse di mostrarsi indifferente. «Il cugino Miles si stava chiedendo che fine avessi fatto.»
Mi voltai di scatto, conscio di avere il viso stravolto. Mi trovai di fronte una ragazza piuttosto robusta, biondo nordico, sui diciassette-diciotto anni, che mi fissava con aria sardonica, e perfino con un certo disprezzo (una reazione che mi sembrò istintiva, un automatico moto di difesa) mescolato ad una vaga curiosità. Doveva essere sua figlia, naturalmente. «Gesù benedetto!» esclamò lei. Era la ragazza che avevo visto quella mattina sulla moto, abbrancata al guidatore. «Sembra che debba svenire da un momento all'altro. Che cosa gli hai fatto? Lo hai minacciato?»
Io scossi la testa. Tremavo ancora, ma mi stavo lentamente riprendendo. Ero stato uno stupido a dimenticarmi il suo nome. Nonostante il seno prosperoso, sottolineato dalla T-shirt aderente, i fianchi larghi e le cosce robuste, nel complesso era una bella ragazza e io mi resi conto che, con quel mio comportamento, dovevo averle davvero fatto una strana impressione.
Duane mi lanciò un'occhiata di sfuggita, poi si voltò di nuovo a guardarmi, facendo rilevare il mio turbamento. «Miles, questa è mia figlia Alison. Vuoi sederti? »
«No, no. Sto bene, grazie.»
«Dove sei stata?» le chiese Duane
«Non sono affari che ti riguardano» replicò quel guerriero tracagnotto dai capelli lisci e biondi. «Sono stata fuori.»
«Da sola o in compagnia?»
«Be', se proprio lo vuoi sapere ero con Zack.» Di nuovo quello sguardo netto, capace di far incrinare un vetro. «L'abbiamo incrociato sulla strada» disse indicandomi, «per cui, siccome lo saresti venuto a sapere comunque, tanto vale che te lo dica io.»
«Non ho sentito la moto.»
«Gesù!» gemette lei alzando gli occhi al cielo e increspando le labbra in una smorfia di disprezzo. «D'accordo, Zack si è fermato alla casa di sotto perché tu non lo sentissi e io sono venuta su a piedi. Soddisfatto, adesso?»
Contrasse il viso e solo allora mi resi conto che quello che io avevo scambiato per disprezzo era soltanto disagio. Quella condizione di perenne imbarazzo che è una vera e proprio tortura per tutti gli adolescenti e che lei cercava di mascherare reagendo con aggressività.
«Non mi piace che tu lo frequenti.»
«Prova ad impedirmelo.» Buttò indietro la testa e passò fra me e Duane, scomparendo in un'altra parte della casa. Dopo un istante, si udì il rumore della televisione, seguito dalla sua voce che urlava: «E in ogni caso, a quest'ora tu dovresti essere fuori a lavorare.»
«Ha ragione» disse Duane. «Che cosa vuoi fare? Hai una faccia strana.»
«Ho avuto un capogiro, ma adesso è passato. Che cos'ha Zack che non ti piace? Mi sembra che tua figlia...» Non ero ancora pronto a chiamare quel fosco guerriero per nome: non potevo fare a meno di figurarmela nell'atto di avanzare con fare imperioso nel bosco, aprendosi un varco fra i rami e sfrondando gli alberi. «Mi sembra che sappia quello che vuole.»
«Ah-ah», convenne Duane stiracchiando un sorriso. «Su Zack, poi, non vuol sentir ragione. Ma nel complesso è una brava ragazza. Brava quanto può esserlo una femmina, s'intende.»
«Certo» riconobbi io, benché quella considerazione mi mettesse a disagio. «Ma che cos'ha Zack che non ti va?»
«Non mi piace. È un tipo strano. Comunque ha ragione Alison, dovrei essere fuori al lavoro a quest'ora. Però non abbiamo ancora sistemato la questione della scrivania. Veramente potrei anche dirti dove puoi trovare l'occorrente e al resto potresti pensarci da solo. Non è difficile.»
Alzando la voce per sovrastare il rumore della tv, Duane mi spiegò che avrei trovato la porta e i cavalietti nel seminterrato; poi aggiunse: «Fai come se fossi a casa tua» e se ne andò. Lo seguii con lo sguardo attraverso le finestre laterali della cucina, mentre si dirigeva goffamente verso la rimessa, dalla quale uscì poco dopo alla guida di un gigantesco trattore. Sembrava perfettamente a proprio agio, come altri uomini appaiono assolutamente naturali in groppa ad un cavallo. Da qualche parte aveva trovato un berretto con visiera, che rimase l'unica parte di lui che continuai a vedere, quando il trattore scomparve dietro gli alti fusti del granoturco.
Il rumore della televisione mi attirò nella stanza in cui si era rifugiata Alison Updhal. Ricordavo che, quando ero bambino, quella stanza era piuttosto piccola: era rivestita in linoleum come la cucina e ospitava essenzialmente un sofà a molle e una televisione mal funzionante. Evidentemente, dall'epoca della Casa dei Sogni Duane aveva affinato le proprie capacità edili, perché l'aveva completamente ristrutturata: adesso, infatti, la camera aveva una superficie pari ad almeno tre volte quella originaria, era rivestita da una lussuosa moquette e arredata con mobili apparentemente molto costosi. Semisdraiata su un divano marrone, la figlia di mio cugino stava guardando una tv a colori e quella circostanza, unita alla T-shirt e ai blue jeans, dai quali spuntavano i piedi nudi, la faceva assomigliare a qualsiasi ricca ragazzina di un quartiere residenziale di Chicago o di Detroit. Quando entrai non si voltò a guardarmi, ma rimase rigidamente immobile, con i muscoli del collo contratti per l'imbarazzo.